Crediti

Scoprire la scienza

© Antonio Acín e Eduardo Acín, 2016
© 2016 EMSE EDAPP, S.L.

Realizzazione editoriale: Studio Festos, Milano
Traduzione: Emanuela Damiani
Revisione scientifica: Antonio Mandarino
© Grafica e illustrazione della copertina: J. Mauricio Restrepo
Progetto grafico: Kira Riera
© Illustrazioni: Jordi Dacs

© Fotografie: tutte le immagini di questo volume sono di dominio pubblico.

Edizione digitale: Vorpal.

ISBN: 978-84-16330-96-6

Einstein e l'intuizione

L'immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo.

Albert Einstein, in The Saturday Evening Post

Chiunque si sia interessato, in qualche momento della sua vita, alla fisica contemporanea avrà notato che in non poche occasioni la si descrive facendo ricorso a etichette come «paradossale» o «anti-intuitiva». Secondo questa lettura, ormai diffusa, nei primi decenni del XX secolo si verificò un processo di effervescenza scientifica dal quale emerse un insieme di teorie destinato a rappresentare una rottura radicale con la fisica vigente fino a quel momento (e che da allora è nota come «classica»), e che ci offre un'immagine della realtà in aperto contrasto con il nostro modo «spontaneo» e apparentemente irrinunciabile di concepire il mondo. Si tratta di una caratterizzazione sulla quale concorda buona parte dei libri, sia accademici sia divulgativi, e che ha l'indubbio merito di avvolgere con un certo alone di mistero, e addirittura di glamour, i progressi fatti dalla scienza negli ultimi anni. Se tutto si limitasse a questo, sicuramente non avremmo nulla da obiettare.

Il problema è che questa insistenza sull'apparente «anti-intuitività» (ci si consenta il termine non comune) della fisica contemporanea può diventare, agli occhi dei comuni mortali, un'imitazione del macabro monito al quale si trovavano davanti le anime prima di fare il loro ingresso nell'inferno dantesco: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Non c'è nulla da fare, sembra avvertirci: la scienza contemporanea è diventata una disciplina astrusa che sfida le nostre capacità e i nostri schemi «naturali» di comprensione, una sorta di rito misterico dal quale i non iniziati devono tenersi lontani. A dire la verità, non sembra un buon punto di partenza per la divulgazione, e neppure un'immagine che contribuisca in modo particolare a promuovere l'interesse e la curiosità per il lavoro scientifico tra gli appassionati.

La figura di Albert Einstein fu fondamentale nello sviluppo di questa rivoluzione scientifica tacciata di incomprensibilità, tanto è vero che potremmo dire senza timore di sbagliarci che non esiste ambito della fisica teorica dell'ultimo secolo che non sia debitore verso i suoi contributi decisivi. Le sue teorie della relatività (speciale e generale) rappresentano una radicale revisione dei concetti fondamentali attorno ai quali si articola la nostra comprensione della realtà: massa, energia, tempo e spazio acquistano un nuovo significato nella fisica post-einsteiniana. L'equivalenza tra massa ed energia, riassunta nella famosa equazione E=mc2, è alla base dello sviluppo della tecnologia nucleare, che ha segnato (nel bene e nel male) la storia dell'ultimo secolo. Allo stesso modo, le teorie più moderne sull'universo, dalla sua espansione al Big Bang o ai buchi neri, non sarebbero possibili senza la relatività generale, dalla quale hanno origine. Persino nell'ambito della meccanica quantistica, al quale di rado si associa il suo nome, i contributi di Einstein furono cruciali per lo sviluppo della teoria; non si dovrebbe dimenticare che Einstein fu insignito del Premio Nobel per la Fisica per la sua spiegazione del fenomeno fotoelettrico, che rappresentò il punto di partenza della quantizzazione della luce.

Einstein_1921_portrait2.tif

Albert Einstein nel 1921, anno in cui gli fu assegnato il Premio Nobel per la Fisica. Fotografia del ritrattista Ferdinand Schmutzer.

Messa in questi termini, è abbastanza semplice capire perché dedicare un libro alla sua figura. Ma che bisogno c'era di scriverne un altro? Che cosa ci può essere ancora da dire sul fisico più famoso della storia dopo centinaia, migliaia, sicuramente centinaia di migliaia di pagine scritte su di lui e le sue idee? Indubbiamente, questo merita una spiegazione, e questa spiegazione ci riporta, come forse qualcuno può già intuire, all'ormai logora accusa di anti-intuitività con la quale abbiamo aperto il capitolo.

In larga misura, il proposito principale di questo libro è esattamente quello di contestare (o quantomeno sfumare) l'interpretazione che tanto spesso si è data delle teorie di Einstein. Per dirlo in altre parole, il nostro intento è difendere la «naturalità» della concezione del mondo che si deriva da quelle teorie, e mostrare come, con le dovute contestualizzazioni, essa corrisponde e coincide con alcuni dei principi che consideriamo intuitivi. A prima vista può non sembrare un compito facile, però abbiamo un solido indizio della ragionevolezza del nostro progetto: di solito Einstein è presentato come paradigma dello scienziato intuitivo con la stessa frequenza con la quale la relatività è accusata del contrario. E in questo caso la descrizione è del tutto azzeccata. Il punto di partenza delle sue ricerche fu sempre il rispetto nei confronti di un insieme di presupposti intuitivi su come doveva funzionare il mondo, intuizioni che successivamente traduceva in un formalismo teorico che esplorava fino alle estreme conseguenze.

Cercheremo, dunque, di identificare ed esplicitare questi presupposti imprescindibili per penetrare nella logica della relatività, come se entrassimo nella testa di Einstein stesso. Per farlo, ci serviremo di alcune considerazioni di carattere storico e filosofico (o epistemologico, se si preferisce) che, lungi dall'essere un semplice ornamento letterario, rappresentano pezzi fondamentali nella dimostrazione che ci siamo proposti. A partire da queste basi, i risultati cadranno da soli per il loro stesso peso, come tessere di un domino. In qualche modo, è proprio lì che risiede la nota distintiva di questo testo; se questo (un altro!) libro su Einstein ha senso, non sarà tanto per la formulazione scientifica delle teoria (che è quella che è) bensì per la prospettiva che adotta. Sarà il lettore a giudicare se ci siamo riusciti.

Prima di proseguire, è il caso, tuttavia, di fare un paio di precisazioni per evitare l'atteggiamento che gli anglosassoni definirebbero come overpromising o, per dirlo in modo più prosaico, per non apparire come una sorta di venditori di rimedi miracolosi. La prima ha a che vedere con la portata della nostra missione. Il nostro tentativo di sottolineare gli aspetti intuitivi degli sviluppi della fisica contemporanea comprende, al massimo, la teoria della relatività, ma difficilmente la meccanica quantistica. Non possiamo farci niente: il carattere paradossale di questo ramo della fisica è difficile da confutare. La seconda precisazione, ancora più necessaria, è di natura semantica: «intuitivo» non è sinonimo di «facile». Anche se è vero che riuscire ad avere una comprensione adeguata dei contributi di Einstein alla fisica teorica non ha motivo di essere un'impresa titanica riservata a pochi eletti, è altrettanto vero che rappresenta una sfida che richiede un indubbio esercizio di astrazione e concentrazione. John Archibald Wheeler, discepolo e collaboratore di Einstein, ricorreva a un'illuminante metafora per dare un'idea del lavoro scientifico del suo maestro e amico: era, diceva, come affrontare la scalata delle montagne più alte. In questo libro cercheremo di fornire al lettore i percorsi, le funi e gli strumenti necessari per raggiungere la vetta, però dovrà essere lui a camminare e ad arrampicarsi. Lo sforzo non ci dovrebbe scoraggiare se consideriamo l'eccezionalità del premio che ci attende alla fine del percorso: accedere a teorie delle quali è stato detto che in quanto «creazione di una sola mente sono senza dubbio alcuno il traguardo intellettuale più elevato dell'umanità».[1] E dici niente!

La discussione sulla minore o maggiore complessità ci conduce ad affrontare una questione piuttosto spinosa, e che inevitabilmente si presenta nel momento in cui ci si dedica alla divulgazione nel campo della scienza: che fare con la matematica? È piuttosto sorprendente che sulle copertine di parecchi libri di divulgazione scientifica risaltino, in caratteri enormi, espressioni come «Senza formule matematiche!», come se questo costituisse un merito indiscutibile e uno straordinario argomento di vendita (be', forse quest'ultimo, in effetti, sì). Noi abbiamo preferito optare per una soluzione intermedia, che riteniamo opportuno esplicitare. Abbiamo scelto di mantenere quegli sviluppi matematici che rispondono a queste due condizioni:

Ciononostante, non abbiamo potuto resistere alla tentazione di includere anche altri (pochi) sviluppi più tecnici, che il lettore più coraggioso troverà nell'appendice alla fine del volume. Queste sono le coordinate di base a partire dalle quali è stata tracciata la mappa di questo libro. Per compiere la nostra missione, inizieremo il percorso con un breve riassunto che abbiamo chiamato «La scienza prima della scienza», per soffermarci in modo più approfondito sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo in generale e sull'opera di Galileo Galilei in particolare. Oltre a farci conoscere i precedenti teorici a partire dai quali Einstein costruì le sue teorie, la storia della scienza ci darà anche l'occasione di stabilire alcuni dei principi che in modo «intuitivo» e «naturale» pretendiamo che qualsiasi spiegazione scientifica della realtà rispetti, principi sui quali ritorneremo in maniera ricorrente nel corso dei capitoli che seguono. L'insieme della produzione scientifica di Einstein, nei suoi successi come nei suoi errori, si può comprendere soltanto se vi si accosta partendo dai presupposti epistemologici ai quali il suo autore non volle (o non poté) mai rinunciare.

Dotati ormai dell'indispensabile equipaggiamento concettuale e metodologico, saremo pronti per addentrarci nella folta boscaglia delle due teorie alle quali il nome di Einstein è rimasto legato in modo indissolubile: la teoria speciale della relatività e la teoria generale della relatività. Nella loro esposizione, cercheremo di mostrare come il carattere apparentemente anti-intuitivo di alcune delle loro conclusioni non sia tale a partire da ciò che abbiamo appreso nelle pagine precedenti. Concluderemo questa parte centrale di carattere più strettamente scientifico parlando dei contributi di Einstein alla fisica quantistica, un aspetto al quale non tutte le opere dedicate alla sua figura riservano la dovuta considerazione.

Einstein fu un rivoluzionario non soltanto nel che cosa, ma anche nel come. Se si è soliti indicare Faraday come il paradigma del fisico sperimentale, non v'è dubbio che Einstein incarni la figura del fisico teorico per antonomasia. Nell'immaginario collettivo, il lavoro scientifico si concepisce come il risultato della sperimentazione e dell'osservazione dei fenomeni, a partire dalle quali si giunge alle conclusioni che essi parrebbero imporci. Prima vengono i fatti, poi la teoria. Einstein inverte la logica del processo, come se mettesse il carro davanti ai buoi. L'esperienza nel suo complesso opera come uno scenario di fondo, il lontano referente a partire dal quale la ragione spicca il volo per immaginare, da sola e slegata dai fatti, ipotesi sul funzionamento del mondo: sono i celebri esperimenti mentali. È questa realtà «sognata» il punto di partenza per la formulazione della teoria, dalla quale si deducono in forma strettamente logica le conseguenze che, successivamente, saranno oggetto di conferma empirica. Prima la teoria, poi i fatti. Non deve sorprendere, dunque, che la realtà, e l'intera comunità scientifica, da oltre cent'anni seguano le tracce di Einstein.


1 Henry A. Boorse, Lloyd Motz, Jefferson Hane Weaver, The Atomic Scientists: A Biographical History. Wiley Science Edition, 1989.

Il germe della relatività

Centinaia di volte al giorno, ricordo a me stesso che la mia vita interiore ed esteriore sono basate sulle fatiche di altri uomini, vivi e morti, e che io devo sforzarmi al massimo per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto e tuttora ricevo.

Albert Einstein, Il mondo come io lo vedo

La frase di Einstein con cui apriamo questo capitolo si potrebbe accompagnare alle celebri parole, tanto spesso citate, con le quali Isaac Newton si riferiva ai suoi predecessori in una lettera del 1676 indirizzata a Robert Hooke: «Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti».[2]

Se Einstein e Newton sottolineavano l’importanza di conoscere le grandi pietre miliari del passato, non saremo certo noi a dire il contrario. Nel nostro caso, questo breve excursus storico ci permetterà di trarre due lezioni fondamentali per affrontare la teoria della relatività. In primo luogo, scopriremo l’opera e il pensiero di Galileo Galilei, che ebbe un’influenza determinante sugli sviluppi teorici di Einstein. Parallelamente, ci permetterà di identificare un insieme di caratteristiche che di solito sono state associate, in modo necessario e intuitivo, alla spiegazione scientifica.

La scienza prima della scienza

Cominciamo con un piccolo esperimento mentale: chiediamo al lettore di stilare velocemente una lista dei grandi protagonisti della storia della scienza. Pronto? È molto probabile che tutti i nomi che compaiono in questa lista corrispondano a figure contemporanee o successive a Niccolò Copernico. Se il nostro pronostico è azzeccato (e ne siamo quasi certi), sembrerebbe imporsi una domanda piuttosto sorprendente: Copernico fu una sorta di padre fondatore della scienza? O, per dirlo in altre parole, l’umanità non ha fatto scienza prima di lui?

Di sicuro non è una domanda alla quale si possa dare una risposta certa e univoca, poiché dal paragone tra il modo degli antichi di confrontarsi con il mondo e quella che ai giorni nostri chiamiamo scienza emergono elementi sia di discontinuità sia di continuità. La differenza più evidente, e che giustifica la distinzione tra allora e adesso, è che l’oggetto principale dell’antica filosofia naturale era la «conoscenza delle essenze», ossia di ciò che fa sì che qualcosa sia quel che è e non altro. Nella misura in cui la realtà che ci circonda ha colori, gusti, sapori, è fredda o calda, morbida o ruvida, è logico che gli sforzi per comprendere e spiegare razionalmente il mondo attorno a noi adotteranno una forma prevalentemente descrittiva e qualitativa.

Allo stesso tempo, però, tra la mentalità pre-copernicana e la scienza esiste un elemento di continuità che sovente passa inosservato. Tanto gli scienziati moderni quanto gli antichi filosofi naturali dovevano rendere conto agli stessi giudici: le esigenze della ragione e della realtà esterna che si pretende di spiegare. Anche se è certo che i criteri che facevano sì che una spiegazione fosse considerata adeguata erano sostanzialmente diversi da quelli a cui ci si appella ai giorni nostri, è altrettanto certo che l’esigenza ultima è sempre stata la stessa: dovevano adeguarsi alla realtà. Il modello geocentrico tolemaico, per fare un esempio famoso, si adattava con notevolissima precisione alle evidenze empiriche disponibili. E lo faceva non solo negli aspetti più evidenti (secondo l’osservazione, è il Sole che si muove attorno alla Terra, e non il contrario), ma anche nella predizione del movimento osservato degli altri astri nel firmamento, il che spiega la progressiva complessità geometrica che venne introdotta nella teoria (eccentriche, epicicli e deferenti).

Qualcosa di simile accade se ci spostiamo dalla cosmologia alla meccanica, che per quasi duemila anni si è basata sui principi aristotelici del movimento. Aristotele è senza alcun dubbio una delle menti più brillanti della storia dell’umanità, una figura che ha dimostrato una curiosità vorace verso i più disparati campi della conoscenza (ovviamente la filosofia, ma anche la logica, la poetica, la cosmologia, la biologia e altri) e che in ciascuno di tali campi ha apportato contributi decisivi. Tuttavia, nell’immaginario scientifico le sue teorie sono rimaste avvolte dallo stesso alone di prescientificità che si suole attribuire alla cosmologia tolemaica. Questo è dovuto in parte a un certo anacronismo nel nostro sguardo, ma soprattutto alla chiusura mentale e all’immobilismo intellettuale dei suoi interpreti scolastici, che appellandosi all’autorità indiscutibile di Aristotele tradivano de facto lo spirito del maestro.[3] Se dopo centinaia di anni qualcuno ancora ripete acriticamente una teoria, la colpa non è di chi l’ha formulata, ma di chi la ripete come un automa.

Aristotele e Kuhn

Thomas S. Kuhn (Cincinnati, 1922 - Cambridge, 1996) è una delle due figure più importanti nella filosofia della scienza del XX secolo (onore condiviso con Karl Popper). Fisico per formazione, orientò la sua attività didattica e di ricerca verso la storia della scienza, il che gli permise di maturare una visione più complessa della disciplina. A lui dobbiamo la rivendicazione della scienza antica in generale, e di quella aristotelica in particolare.

In un articolo pubblicato nel 1987 («Che cosa sono le rivoluzioni scientifiche»?), Kuhn narra di come avesse avuto una sorta di rivelazione dopo la quale, all’improvviso, aveva compreso la logica e il significato della fisica aristotelica:

Aristotele mi sembrava non solo un ignorante in meccanica, ma oltretutto un fisico terribile. In particolare i suoi scritti sul movimento mi sembravano pieni di errori madornali, sia di logica che di osservazione. [Ma] queste [mie] conclusioni erano inverosimili. Dopotutto Aristotele […] aveva dimostrato spesso che come naturalista era un osservatore straordinariamente acuto. […] Come poteva essere che il suo caratteristico talento lo avesse abbandonato così sistematicamente quando passò allo studio del movimento e della meccanica? […] Non poteva essere che il problema fosse mio e non di Aristotele? […] Con questo in mente continuai a sforzarmi di comprendere il testo, e alla fine i miei sospetti dimostrarono di essere ben fondati. Ero seduto al mio scrittoio con il testo della Fisica di Aristotele di fronte a me e una penna a quattro colori nella mano. Alzando gli occhi guardai distratto dalla finestra della stanza ―ricordo ancora l’immagine visiva―. All’improvviso i frammenti nella mia testa si ordinarono di per sé in un modo nuovo, incastrandosi tutti allo stesso tempo. Mi si aprì la bocca, perché all’improvviso Aristotele mi sembrò un fisico veramente bravo, anche se di un tipo che io non avrei mai creduto possibile. Allora potevo comprendere perché avesse detto ciò che aveva detto, e quale fosse stata la sua autorità.[4]

L’obiettivo di questo libro sarà quello di provocare nel lettore un cambio di prospettiva simile affinché, nell’affrontare la teoria della relatività, gli accada quel che accadde a Kuhn con Aristotele: un’illuminazione improvvisa in cui «i frammenti si ordinino e si incastrino tutti allo stesso tempo».


4 Il brano è riportato per esteso in Popper e Kuhn. Due giganti della filosofia della scienza del XX secolo, di C. U. Moulines.

Com’era la realtà secondo le teorie aristoteliche? Il primo aspetto differenziale da sottolineare è che «il nostro è un mondo di spazio, mentre quello di Aristotele era un mondo di luogo».[5] Sarebbe a dire che mentre per noi gli avvenimenti si collocano in un substrato indifferenziato e non gerarchico (lo spazio), nel mondo di Aristotele, invece, tutto accadeva in uno scenario formato da luoghi qualitativamente differenti, e di maggiore o minore importanza.

Un esempio pratico ci aiuterà a illustrare la differenza tra le due concezioni. Per noi, i meccanismi della gravità sono gli stessi qui e a milioni di chilometri di distanza, che siano il risultato di una forza di attrazione tra le masse (Newton) o della curvatura dello spazio (Einstein). Quello che accade accade nello stesso modo in un punto o nell’altro dello spazio, e per questo diciamo dello spazio che è indifferenziato e non gerarchico.

Al contrario, per Aristotele la caduta dei corpi è il risultato della tendenza insita in ciascuno di essi a dirigersi ai suoi luoghi naturali corrispondenti, quelli che gli sono propri: in assenza di forze o di ostacoli, la terra e l’acqua si muovono naturalmente verso il centro, mentre l’aria e il fuoco si innalzano verso il cielo. Dunque, vi è un centro dell’universo, e non è uguale nel mondo sublunare e in quello sopralunare. In seguito vedremo che la transizione da Aristotele alla relatività, passando per Galileo, può essere intesa come una successiva perdita di gerarchie verso una democratizzazione nella visione dello spazio e del tempo.

È evidente che non tutti i movimenti che osserviamo attorno a noi si limitano allo spostamento dei corpi verso i loro luoghi naturali. Nei restanti casi, la meccanica aristotelica si basava su un principio fondamentale: per mantenere un corpo in movimento, bisogna applicargli una forza costante, in assenza della quale il corpo si ferma. In fin dei conti, lo stato «naturale» di ogni corpo è la quiete, mentre il moto rappresenta sempre una modificazione per la quale bisogna identificare una causa.

A dire il vero, non è un punto di partenza particolarmente strampalato, anzi, trova corrispondenze in quanto sperimentiamo nella nostra vita quotidiana. Per esempio, dobbiamo applicare una forza costante per spostare un mobile nel salotto di casa nostra. Nonostante la sua apparente correttezza, però, dal principio così formulato derivava un corollario che ben presto avrebbe originato problemi: se il moto richiede l’azione permanente di una causa, questa causa deve essere in ogni momento in contatto con l’oggetto mosso.