«Con l’esperienza, l’educazione, l’arte e la vita noi insegniamo ai nostri cervelli a diventare unici e impariamo a essere degli individui. Questo apprendimento è sia neurologico che spirituale. Io considero unite la neurologia e l’anima, in modo che ciò renda dignitosa la neurologia e non indegna l’anima».

Oliver Sacks

Crediti

Scoprire la scienza

© Tiziana Cotrufo, 2016
© 2016 EMSE EDAPP, S.L.

Realizzazione editoriale: Studio Festos, Milano
© Grafica e illustrazione della copertina: J. Mauricio Restrepo
Progetto grafico: Kira Riera
© Illustrazioni: Jordi Dacs

© Fotografie: tutte le immagini di questo volume sono di pubblico dominio salvo quelle alle pagine 18 (Alila Medical Media/Shutterstock), 22, 29 (Designua/Shutterstock), 25, 57 (Jose Luis Calvo/Shutterstock), 27 (© Herederos di Santiago Ramón y Cajal), 33 (joshia/Shutterstock), 47 (Presidenza della Repubblica/Wikimedia Commons), 49 (elaborazione da E. Castréne, René Hene, DOI), 73 (Yanik Chauvin/Shutterstock)

Edizione digitale: Vorpal.

ISBN: 978-84-16330-99-7

La neuroscienza al servizio dei bambini

Un'analogia imperfetta

Al momento di iniziare a scrivere questo libro mi sono seduta davanti al mio computer. Lo riconosco: detto così, non è un inizio particolarmente epico o sorprendente; se il compito delle prime righe deve essere quella di accendere la curiosità del lettore (mi sembra di ascoltare il mio editore), iniziare con un’informazione banale non sembra essere la strategia migliore. Quindi, è opportuno che la giustifichi.

Il riferimento al computer non è gratuito, dal momento che si tratta della comune analogia con la quale ci siamo abituati a concepire la struttura e il funzionamento del nostro cervello. Come il cervello, il computer dispone di una serie di piccole unità funzionali, distribuite qui e là in settori specializzati e tutte collegate attraverso un sistema di cablaggio complesso che assicura la loro interazione. Come noi, riceve stimoli dall’esterno, tramite la tastiera o altri dispositivi esterni, che elabora per fornire risposte ed eseguire i comandi. È un confronto illuminante e non privo di fondamento, ma rischia di essere eccessivamente semplicistico o, peggio, fuorviante, come ci mostrano alcuni dei progressi più significativi nel campo delle neuroscienze raggiunti nel corso degli ultimi anni. In particolare, se vi è una fase nella vita dell’individuo in cui l’immagine «computazionale» del cervello risulta particolarmente inadeguata è senza dubbio quella che corrisponde ai primi anni di vita di ciascuno di noi: all’infanzia. Torniamo al computer per spiegarlo.

Quando il mio pc lasciò la fabbrica, era più o meno quello che è oggi: gli stessi circuiti e processori, la stessa capacità e potenza, identica funzionalità. Nel corso del tempo posso avere aggiunto contenuti o nuovi programmi, ma le sue capacità complessive rimangono all’incirca le stesse. Non è cambiato nulla. La differenza con il cervello del bambino, in costante ebollizione, non potrebbe essere più evidente. Il bambino di cinque anni è in grado di «svolgere funzioni» molto diverse da quello di pochi mesi, non solo perché gli abbiamo fornito contenuti aggiuntivi (come se avessimo installato un nuovo software), ma anche e soprattutto perché il suo cervello si è differenziato: come vedremo, i «processori» si moltiplicano (o si riducono) e le connessioni si modificano.

In questo risiede la cosiddetta plasticità cerebrale, uno dei concetti fondamentali per capire come funziona il cervello, della quale parleremo a lungo nel corso di queste pagine. Al momento, anticipiamo come si tratti di un meccanismo evolutivamente sviluppato affinché gli esseri umani si adattino (condizione necessaria per la sopravvivenza), e non c’è dubbio che funzioni meglio in tenera età, come peraltro il nostro organismo intero (non così l’abilità di prendere decisioni corrette, ma lo vedremo). Le neuroscienze hanno inequivocabilmente dimostrato l’esistenza di momenti più favorevoli per l’apprendimento per la maggior parte dei processi cognitivi e sensorio -motorio: la neurobiologia li chiama periodi critici o sensibili e consistono in relativamente piccole finestre temporali all’interno delle quali è più facile che il cervello sia plastico e si modifichi da un punto di vista strutturale e funzionale. Sebbene il sistema nervoso umano sia attivo alla nascita e quindi il neonato possa respirare, vedere e udire, le sue capacità sono ancora abbastanza ridotte. L’esperienza che il neonato farà a partire dall’uscita del grembo materno contribuirà sostanzialmente a plasmare il numero e il tipo di connessioni nel suo cervello. Per questo motivo, la maggior parte di questi intervalli sensibili alle modificazioni si apre proprio nel periodo successivo alla nascita e si chiude in momenti diversi fino all’adolescenza a seconda del campo cognitivo.

Il secondo recente progresso delle neuroscienze al quale faremo riferimento è la scoperta dei neuroni specchio: quando osserviamo una persona realizzare un’azione, questi neuroni si attivano esattamente come se l’azione la stessimo compiendo noi. I neuroni specchio hanno messo in evidenza il ruolo dell’imitazione e dell’empatia sulle abilità intellettuali e sociali. Prima gli scienziati pensavano che i nostri cervelli utilizzassero processi logici per interpretare e prevedere le azioni degli altri. Ora invece sembra evidente che noi capiamo gli altri non pensando, ma sentendo. Possediamo dunque un substrato neurobiologico per capire come ascoltando parlare la mamma in tono affettuoso si apprende il linguaggio o come guardando la nonna cucire si impara a dare forma ai tessuti e vedendo qualcuno felice ci rallegriamo.

Ultimo punto: sappiamo anche neuroanatomicamente che le vie nervose che consolidano la memoria passano dal filtro delle emozioni. Se una determinata esperienza produce un’emozione, più facilmente genererà un ricordo più duraturo. A questo proposito il recente cartone animato per bambini, e per adulti direi, Inside Out, ha cercato di mettere a disposizione della società alcune di queste evidenze in modo estremamente accessibile. Le nostre identità sono definite dai caratteri che ereditiamo, ma anche dalle esperienze e dalle emozioni che proviamo: ciò dà forma alla maniera in cui noi percepiamo, a come ci esprimiamo e alle risposte che noi evochiamo negli altri. Il successo cinematografico ha alcune limitazioni (probabilmente per esigenze di produzione), come l’esistenza di cinque sole emozioni che utilizzano un pannello di controllo unico nel cervello, quando in realtà le emozioni sono molto più numerose e la coscienza è un po’ il frutto dell’attività dell'intera corteccia cerebrale; non sono d’accordo neanche sull’idea che la prima emozione a nascere sia l’allegria, anche se senza dubbio dovremmo tendere a che sia predominante. Ma il messaggio di gran lunga più significativo è che le emozioni, piuttosto che distruggere, organizzano il pensiero razionale. Cartesio i razionalisti ci hanno trasmesso l’idea che le emozioni e il ragionamento logico procedessero per vie parallele, e ora invece non abbiamo dubbi che partecipino al corretto sviluppo della razionalità e anche del nostro giudizio morale del bene e del male. E persino la tristezza, a cui pensiamo come a un'emozione poco produttiva e inerte, può spingere gli individui a reagire davanti a una perdita e a imparare da essa. Perché allora non insegnare generando emozioni?

Plasticità cerebrali, neuroni specchio e importanza delle emozioni sono pertanto le tre caratteristiche essenziali nel processo di apprendimento che rendono inadeguato il «modello computazionale» con il quale talvolta concepiamo il cervello del bambino. Su queste e altre proprietà biologiche così rilevanti bisogna riflettere e studiare non solo per mantenerle, ma anche per incrementarle e soprattutto utilizzarle al meglio per educare i nostri bambini e i loro insegnanti. La scuola di oggi non può non tenerne conto, ma deve saperne gestire tempi e caratteristiche per aiutare bambini e giovani a costruire il loro cervello, che poi significa anche il loro comportamento.

Il problema di oggi però non è solamente la mancanza di nuove riforme dell’educazione che contemplino queste recenti conoscenze, ma è anche il fatto che non esista un adeguato trasferimento di queste informazioni/applicazioni alla società. Dalle interpretazioni dei dati forniti dalle neuroscienze è nato un vero e proprio mercato che spesso spinge i genitori ansiosi e non a cercare asili nido che presentino ai piccoli collezioni di bit di intelligenza, a comprare in tenera infanzia i giochi di stimolazione più evoluti, a seguire le presunte basi neuroscientifiche dei nuovi e precoci metodi di apprendimento della matematica e delle lingue da zero a tre anni; tutto per garantire un futuro brillante a chi più amano al mondo. Non si tratta di screditare l’efficacia di alcune di queste metodologie sui bambini, in molti casi assolutamente necessarie nel caso di problemi dello sviluppo, come per i bambini autistici o dislessici o con disturbi dell’attenzione e iperattività, che richiedono un’attenzione speciale e soprattutto tecniche di apprendimento adattate. Semplicemente bisognerebbe parlare in termini di neuroeducazione, ovvero dell’utilizzazione delle conoscenze nelle neuroscienze per dare valore a evidenze ottenute dall’esperienza e per sviluppare i più appropriati metodi di insegnamento, piuttosto che di stimolazioni precoci a qualunque costo. Bisogna dunque sfatare i «neuromiti» che la società ha creato coscientemente o non per i propri interessi e cercare quanto di più genuino ci sia nell’ambito della ricerca sul cervello per facilitare non solo la conoscenza, ma anche la felicità che la conoscenza apporta, e questo sì che significa IMPARARE!

Scopo di questo libro è perciò quello di chiarire quali sono le fasi fondamentali dello sviluppo del sistema nervoso, i meccanismi con cui agisce la plasticità sinaptica e i processi cerebrali con cui i diversi stimoli vengono percepiti per mettere le neuroscienze a disposizione dell’educazione dei cervelli e delle coscienze dei nostri bambini.

Con tale proposito, cominceremo con un capitolo dedicato a illustrare brevemente le basi neurobiologiche del cervello: anche se non è solo un computer, per capire il suo funzionamento è necessario possedere alcune conoscenze di base sulle sue unità funzionali (neuroni) e la sua struttura (il «cablaggio» e le distinte aree in cui si svolge). Provvisti così dell’attrezzatura di base, nel secondo capitolo passeremo a descrivere i primi eventi dello sviluppo cerebrale embrionale e fetale, dove sono soprattutto i geni a dire la loro. Apriremo poi una finestra sul sistema nervoso infantile, dai neonati ai bambini: l’ambiente in cui si vive e gli stimoli ricevuti prenderanno il sopravvento.

Ne approfitteremo inoltre per fare una breve incursione nel periodo di «massima capacità distruttiva e minima capacità di ragionamento», l’adolescenza. I due capitoli successivi parleranno dello sviluppo delle principali abilità e di quello che le neuroscienze più attuali possono apportare alla società per comprendere i processi di apprendimento. Il sesto chiuderà l’opera dando uno sguardo alla nuova disciplina della neuroeducazione e a come sia già riuscita per lo meno a sfatare i neuromiti.

Prima di concludere questo capitolo introduttivo vorrei introdurre un’ultima fondamentale osservazione su questa «analogia imperfetta» di cui stiamo parlando: se il cervello non è (solo) un computer, vuol dire che non ci sono manuali di istruzioni con le quali sia possibile «programmarlo». Il lettore che cerchi ricette infallibili per trasformare il suo bambino in Einstein (come promettono e hanno promesso alcuni libri) non le troverà in queste pagine. Fortunatamente la scienza è molto più umile e prudente nelle sue affermazioni, anche se questo comporta di dover rinunciare a titoli sensazionali o a slogan d'impatto. Come scienziata (e come madre) ho preferito optare per il rigore scientifico, piuttosto che per gli effetti speciali.

Se qualcosa è noto alle neuroscienze, è che la rete di centinaia di miliardi di cellule nervose che si formano durante lo sviluppo embrionale e nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza è ciò che rende ciascuno di noi un essere unico e distinto dagli altri. Per un corretto sviluppo non ci sono formule magiche, ma quattro ingredienti essenziali e necessari che devono accompagnare durante l’infanzia: l’affetto e la cura, un ambiente stimolante e il tempo. Tendiamo a ricordare i primi tre, ma troppo spesso ci dimentichiamo l’ultimo.

Lamberto Maffei, che ha seguito e diretto i miei studi di dottorato, durante le rilassanti corse nelle campagne pisane mi diceva sempre che per pensare e creare c’è bisogno soprattutto di tempo. Persino da un punto di vista neuroscientifico, imparare a gestire la noia per un bambino può significare stabilire importanti connessioni sinaptiche (quelle fra i neuroni) che gli permetteranno di essere più creativo o di avere delle idee.

Come funziona il cervello

Il cervello macroscopico

Per capire come si sviluppa il cervello dobbiamo prima cercare di comprendere come è fatto e come funziona da adulto. A tutti noi viene in mente un’immagine più o meno chiara di che aspetto abbia tale organo: pensiamo alle sembianze di una noce rugosa, con tanti solchi e pieghe, un po’ più morbida e di aspetto biancastro. Forse sarebbe meglio dire grigiastro, visto che a questa zona ci riferiamo quando diciamo a qualcuno di far funzionare di più la sua materia grigia. Pesa anche un po’ di più di una noce, visto che può arrivare a 1500 grammi.

Uno di questi solchi lo taglia a metà separandolo nei due emisferi cerebrali, a prima vista identici. Quello che caratterizza gli uomini e li rende diversi dagli altri animali è proprio lo sviluppo enorme degli emisferi, occupati principalmente dalla corteccia cerebrale. Questo strato esterno, dove i neuroni si impacchettano in colonne in maniera così precisa, nell’uomo è cresciuto così tanto che non ce la farebbe a stare nella scatola cranica se non si girasse su se stesso tante e tante volte. Sono i neuroni presenti nelle circonvoluzioni della corteccia a farci pensare, provare emozioni e permetterci una coscienza: non possiamo affermare che topi e ratti non abbiano una loro coscienza, ma quello che sappiamo di sicuro è che i loro emisferi e la loro corteccia sono completamente lisce, senza curve.

È curioso, perché a prima vista la corteccia sembra tutta uguale, eppure ognuna delle sue parti ha un ruolo davvero specifico (figura 1). In effetti, il cervello ha una sua peculiare geografia, che vale la pena illustrare brevemente: la parte posteriore, la corteccia occipitale, s’incarica di permettere che il cervello elabori l’informazione visiva; la regione laterale superiore, la corteccia parietale, si prende cura soprattutto di percepire ogni sorta di stimolo sensoriale; la parte laterale inferiore, la corteccia temporale, si impegna a decodificare i diversi suoni e odori, e quella più anteriore sopra gli occhi, la corteccia frontale, povera lei, deve fare il resto: farci parlare, muovere, avere una personalità e, soprattutto, farci prendere le decisioni giuste!

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FIG. 1. Aree specifiche del cervello. Nell’immagine di vedono rappresentate le principali aree della corteccia cerebrale, sotto le quali si trova il cervelletto e il tronco encefalico.

Si intuisce quindi che tutte queste aree devono parlare con zone sottostanti o subcorticali per capire che cosa vedono gli occhi, sentono le orecchie, odora il naso e percepiscono i polpastrelli delle dita. E infatti una serie di connessioni nervose, veri e propri cavi elettrici in miniatura, spesso ricoperte di nastro isolante (la mielina), corrono in giù e in su a portare i diversi messaggi verso la corteccia e dalla corteccia. Questi collegamenti sono resi possibili dai neuroni di proiezione, che seguono un ordine che sorprenderebbe persino un informatico per la rigorosità con cui si stabiliscono.

Tra queste regioni vale la pena di nominare il sistema limbico e il tronco encefalico. Il primo, proprio sotto la corteccia e, in certi casi, nella parte della corteccia nascosta dai solchi, consiste di strutture che filtrano gli stimoli esterni in base allo stato d’animo: l’amigdala analizza l’ansia e la paura insieme con un vasto ventaglio di emozioni, i bulbi olfattivi le sensazioni derivate dagli odori, l’ippocampo partecipa alla formazione dei ricordi e i nuclei talamici, i corpi mammillari, la corteccia limbica e parte del mesencefalo curano il resto della vita emotiva dell’individuo. Il tronco encefalico, una delle regioni filogeneticamente più antiche del sistema nervoso e la cui funzione principale è il controllo delle funzioni vitali, costituisce l’autostrada dalla quale passano tutte le informazioni provenienti dal e verso il nostro corpo; collabora a mantenere il nostro stato di veglia e di attenzione e quando viene danneggiato può portare al coma e a stati vegetativi persistenti.

Ma al cervello tutto questo ancora non basta per funzionare al meglio: le informazioni (specifiche di ogni modalità) nella stessa corteccia cerebrale non restano separate e le diverse regioni specializzate comunicano costantemente fra di loro. Se gli occhi vedono un pericolo, i neuroni associativi della corteccia occipitale chiedono a quelli della corteccia uditiva se le orecchie hanno sentito suoni o rumori preoccupanti, e se tutto lascia pensare al peggio anche dal punto di vista emotivo, rapidamente lo riferiscono all’amica frontale che decide di farci fuggire a gambe levate prima ancora di correre dei rischi. È proprio grazie a questo meccanismo che non arriviamo a bruciarci ogni volta che abbiamo a che fare con il fuoco: anche se non sente il calore o il dolore il cervello sa già che deve spostare la mano, perché le informazioni delle esperienze visive o olfattive di una fiamma sono state legate al pericolo o al dolore di questa esperienza e immagazzinate in altre regioni.

Dal punto di vista neurobiologico la cognizione, il processo che permette la conoscenza, funzionerebbe esattamente in questo modo: sarebbe costituito dai processi nervosi attraverso i quali il cervello integra gli stimoli (esterni e interni) che hanno un significato e le motivazioni interne in quella che sarebbe la consapevolezza della coscienza e un comportamento appropriato.

Poco tempo prima di diventare una giovane ricercatrice nel campo delle neuroscienze mi appassionavano e mi incuriosivano le letture dei racconti di Oliver Sacks (1933-2015): aveva un caso per ogni piccola lesione in una di queste cortecce. Sacks, un neurologo e neuroscienziato eccellente, non solo visitava il paziente, ma lo seguiva passo passo nella vita quotidiana per capire fino a che punto le piccole «ferite» nella corteccia limitavano o arricchivano (qualche volta sì) la vita di quell’uomo. Ricordo, per esempio, il pittore che dopo un piccolo incidente notturno si risvegliò il giorno dopo senza la capacità di poter distinguere i colori (acromatopsia). O il famoso paziente, eminente musicista, che aveva perso l’abilità di dare significato a tutti gli oggetti che vedeva fino a punto di scambiare sua moglie per un cappello (agnosia). Oggigiorno le tecniche di neuroimaging funzionale, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o la PET (Positron Emission Tomography) hanno permesso di localizzare le aree cerebrali destinate a una determinata funzione senza che ci siano necessariamente delle lesioni, ma semplicemente chiedendo al soggetto di effettuare un compito specifico. L’evoluzione di questi metodi ha aperto alle neuroscienze la possibilità di esplorare territori sconosciuti con estrema facilità: basta chiedere al soggetto di ricordare una sequenza di numeri, leggere o guardare delle immagini per vedere sullo schermo del computer un cervello su fondo scuro dove le regioni cerebrali che si attivano cominciano a colorarsi di rosso, di giallo o di blu a seconda del grado di attività.

In questo modo abbiamo scoperto che l’emisfero destro e sinistro, sebbene simmetrici e collegati dal corpo calloso (un fascio abbastanza grande di fibre nervose che li mantiene costantemente informati di quello che accade nell’altro), in realtà non svolgono proprio identiche funzioni. Per esempio, in 90 individui su 100 approssimativamente, in quello sinistro, nella zona temporale, si trova una regione che permette la comprensione orale e scritta delle parole: l’area di Wernicke. Che curioso, proprio vicino alla corteccia uditiva! E un po’ più avanti, nel lobo frontale, ma sempre a sinistra, si trova un’altra area responsabile della pronuncia delle parole, l’area di Broca: anche questa non casualmente si trova vicino alla corteccia motoria. Insieme permettono ai bambini di comprendere una lezione e una lettura sul libro e di saper rispondere alle domande della maestra.