Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.
La traduzione della citazione del Macbeth di Shakespeare a p. 155 è di Antonio Meo, Garzanti, Milano, 1974; quella di Guglielmo Tell di Schiller a p.160 è di Pompeo Ferrario; i versi della poesia Benvenuto e addio di J.W. Goethe a p. 294 sono tratti dal volume Lieder, a cura di Maria Teresa Giannelli, Mondadori, Milano, 2000.

Della stessa autrice:
Delitto al pepe rosa. Il primo caso della cuoca Katharina Schweitzer
Morte sotto spirito. La cuoca Katharina torna a casa
Assassinio à la carte. La cuoca Katharina e la mafia turca
Miele amaro. La cuoca Katharina e l’eredità pericolosa
Buffet al veleno. La cuoca Katharina e il terribile sospetto

Titolo originale: Bibbeleskäs
© 2013 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: gennaio 2020

Impaginazione: Rossella Di Palma
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-640-1

Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Viale della Piramide Cestia 1C
00153 Roma
www.emonsedizioni.it

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BRIGITTE GLASER

CRIMINI AL PISTACCHIO

La cuoca Katharina va in Alsazia

Traduzione di Anna Carbone

 

Per Gebhard e l’amicizia franco-tedesca

UNO

Dai retta alla pancia, ripetono tutti, ascolta il tuo corpo, la mente può essere infida! Se la pancia borbotta o rumoreggia, tira o si contrae, si gonfia o s’intasa, c’è qualcosa che non va. La pancia come sistema di allarme, come affidabile protettrice dalle avversità, come settimo senso. Ma scherziamo? Un organo fatto di anse e serpentine, un vero e proprio labirinto di budella, dotato della lungimiranza di Cassandra? Tutte idiozie, psicologia spicciola decisamente sopravvalutata.

O perlomeno, quando alle primissime luci dell’alba di quel giorno di fine estate il pullman si fermò nel parcheggio del Tiglio, la mia pancia non diede il minimo cenno di protesta. Certo, lo aveva fatto un paio di settimane prima, quando Martha aveva telefonato a Colonia complimentandosi con me perché avevo davvero chiuso il Giglio Bianco e mi ero presa due settimane di ferie. Ma quando c’è di mezzo mia madre la mia pancia protesta d’ufficio, perché di lei diffido a prescindere.

Il pullman era vecchio, un Büssing-Senator originale del 1964, messo a disposizione dal titolare della compagnia di autobus Käshammer di Oberkirch, che scarrozzava personalmente quel trabiccolo.

Il grassone scese dalla vettura vantandosi con tutti di quanto gli fosse costato procurarsi quel pezzo d’antiquariato, visto che nel 1967 gli abitanti di Fautenbach si erano recati per la prima volta nell’alsaziana Scherwiller con un modello identico a quello.

“Quarantacinque anni di amicizia franco-tedesca,” non faceva che ripetere. “Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe durata così a lungo?”

Le sue parole furono soffocate dal cicaleccio dei passeggeri in attesa, che all’arrivo del pullman si erano avvicinati. Mezzo paese era in partenza per l’Alsazia. Alcuni si precipitarono sulla B3 per prendere al Becco d’oca il caffè e i panini per la colazione da consumare in viaggio, altri si affrettarono a spegnere la prima sigaretta della giornata sotto il nostro tiglio, un paio di ritardatari si sbracciarono dal parcheggio del municipio per fare segno di aspettarli. La maggior parte, però, si stava già ammassando per salire sul pullman con borse e strumenti.

Gli strumenti, appunto. Perché naturalmente nelle solennità la banda musicale non poteva mancare. Era contemplata sin dall’inizio, dal momento che niente unisce i popoli come la musica. E, neanche a dirlo, c’erano pure il consiglio comunale e la squadra di calcio: un’amichevole si gioca sempre volentieri, anche se, amicizia o meno, l’andamento della partita e il risultato possono finire per dividere anziché unire. La novità di quell’anno, invece, era la sfida culinaria. Certo, anche il cibo unisce, ma la domanda se sia migliore la cucina alsaziana o quella badenese trova risposta diversa a seconda che la si faccia sulla sponda destra o su quella sinistra del Reno. Quel giorno il duello culinario avrebbe chiarito la questione.

Martha mi chiamò a gesti dalla portiera posteriore del pullman. Mi avrebbe tenuto un posto libero, urlò mia madre prima che Erwin Droll avanzasse col suo poderoso deretano. Nel parcheggio Käshammer stringeva mani, batteva pacche sulle spalle, indicava l’orologio da polso, puntava il dito verso il pullman. Radunava la gente come un pifferaio magico.

Filava tutto liscio come l’olio. Quel mattino era tutto uno spingersi e pigiarsi, un ridere e scherzare, uno sghignazzare e borbottare. E la mia pancia era tranquillissima, non faceva una piega, piatta come il Mummelsee in un giorno d’estate. Forse per una come me, che appena sveglia è sempre scorbutica, era troppo presto per l’intuito. O forse era troppo presto per campanelli d’allarme di qualsiasi tipo. Sarà di nuovo una giornata calda, pensai soltanto, vedendo salire un sole splendido nel cielo azzurro dietro l’Hornisgrinde. E gli uccellini tra i rami del nostro tiglio cinguettavano così forte che soffocavano quasi le chiacchiere di Käshammer.

Stavo finalmente per salire a bordo quando sentii un colpetto sulla spalla. Mi voltai e davanti a me vidi il volto raggiante del mio vecchio amico FK Feger, e subito dietro di lui sua moglie Rita. Dunque quei due erano tornati insieme. I figli, i soldi, la solitudine, la vecchiaia, l’amore: l’uno o l’altro di quei motivi doveva averli spinti a riprovarci. Speravo solo che, nell’intento di voltare pagina, a FK non fosse saltato in mente di raccontare a Rita della nostra breve avventura di tre anni prima. Mi bastò un’occhiata all’espressione di lei per capire che lo aveva fatto.

“Ovviamente la stampa non può mancare,” commentai, quindi abbracciai FK e diedi la mano a Rita, che evitò di guardarmi negli occhi. Sì, era il tipo di donna che non sa perdonare una scappatella del marito. Eppure era stata davvero una storiella innocua, sentimentale, priva di conseguenze e molto, molto breve.

“Muoviti, Fritz-Karl,” lo apostrofò Rita.

Sua moglie era l’unica a chiamarlo con il suo nome intero, che FK odiava da quando aveva quindici anni. Già quello per me sarebbe stato un motivo valido per separarmi ma, d’altro canto, l’amore è bello perché è vario…

“Ho un’intera pagina sul giornale di lunedì,” mi disse FK. “In fin dei conti, dopo la guerra Fautenbach è stato il primo comune della nostra regione a cercare un gemellaggio con una cittadina francese. E guai a voi se non vincete la sfida.”

Questo è poco ma sicuro, pensai mentre FK mi sorrideva, Rita stringeva le labbra e io stavo in mezzo ai due come un’idiota. Per fortuna a salvarci da quella penosa situazione arrivò Felix Ketterer.

“Buongiorno, Katharina,” mi salutò a bassa voce, quindi spense la sigaretta e poi mi strinse timidamente la mano.

Aveva ancora quel commovente sguardo da cucciolo che quando eravamo compagni di scuola faceva trepidare i cuori di tutte. Allora davanti a “Felix il bello”, come lo chiamavamo noi ragazze per via dei riccioli biondi, c’era la fila per un bacio. In terza non c’era nessuno che pomiciasse meglio di lui, e la cosa più bella dei suoi baci era che sapevano di gomma da masticare. Non avevo idea di come baciasse adesso, ma il suo fascino era definitivamente svanito. Eppure aveva ancora un bell’aspetto, anche se era un po’ troppo grigio e un po’ troppo flaccido per un uomo sui quarantacinque. Era come se fosse appassito anzitempo.

“Su, sali,” gli mise fretta Käshammer, indicando la portiera del pullman.

“Manca ancora mia moglie Sophie,” spiegò Felix, accennando con la testa in direzione del parcheggio del municipio, e subito si accese un’altra sigaretta.

“Quella arriva sempre all’ultimo minuto,” sbuffò Käshammer stizzito. Quindi salì a bordo, chiese se mancasse ancora qualcuno, verificò che non era così, tornò indietro e ringhiò: “Due minuti e poi parto.”

La donna che veniva verso di noi parlando al cellulare non era il tipo da farsi mettere fretta. Piccola e formosa, con un sedere più grosso del mio o di quello di Martha, salutò con la mano, ma poi si fermò davanti al distributore e terminò la telefonata con tutta calma.

“Il presidente del gruppo consiliare. La faccenda del mega-magazzino, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Buongiorno, Manfred,” sbottò, e Käshammer parve davvero capire di che cosa stesse parlando. Sophie pregò Felix di cercare un posto per entrambi, quindi mi squadrò con curiosità. “E così questa è la nostra campionessa di cucina! Stelle, cappelli, forchette, elogi. Complimenti!”

La sua ammirazione mi scaldò il cuore, anche se stelle, cappelli e forchette erano ampiamente esagerati. Due anni prima il Giglio Bianco, il mio ristorante di Colonia, aveva ottenuto soltanto due forchette sulla guida Gault & Millau.

“Passi le vacanze a casa, mi ha detto Felix. Mi pare giusto, ci sono poche regioni belle come l’Ortenau.”

Sì, vacanze a casa, in un certo senso era proprio così, ma vacanze forzate. Annuii senza parlare mentre l’attenzione di Sophie Ketterer tornava ad appuntarsi su Käshammer.

“Sono davvero l’ultima?” domandò.

“Ancora un po’ e partivamo senza di te!”

“Non ci credo.” Se ne uscì con una risatina frivola, quindi fece serpeggiare il possente didietro all’interno del pullman. Käshammer si schiacciò dietro di lei e io e il mio possente didietro dovemmo aspettare che si sistemasse al volante.

Martha mi chiamò dal fondo. Per raggiungerla fui costretta a farmi largo tra strumenti musicali e gambe di calciatori, quindi mi sedetti di fianco a mia madre nell’unico posto ancora libero.

Käshammer imboccò l’A5 in direzione di Basilea. Martha approfittò del viaggio per fare il punto della situazione sulla nostra brigata di cucina. Memorizzammo ricette, ricapitolammo compiti, discutemmo piani di emergenza. Tra i presenti l’adrenalina era alle stelle e sperai che ne avanzasse ancora per quando ne avremmo davvero avuto bisogno per cucinare.

Quella mattina Martha sprizzava energia da tutti i pori ed era di umore vergognosamente euforico, come un’adolescente su di giri. Io invece pensavo al macellaio Jörger, che era già in strada per l’Alsazia con il suo camion frigorifero. La sera prima avevo fatto con lui un’ultima ispezione delle pentole di brodo di manzo, spalle di maiale, gnocchi di midollo e crespelle e di tutte le altre cose che ci occorrevano in cucina. Ingredienti ottimi, tutti di altissima qualità. Ma di certo era così anche per gli alsaziani. “Lascia perdere l’orgoglio,” mi aveva detto Martha. “Andiamo là solo per divertirci. E se perderemo, ci penseranno i calciatori a rimediare. Quelli vincono praticamente sempre.”

Che noi avremmo vinto e i calciatori invece no, non me lo disse né la pancia né nient’altro, tanto più che quella mattina sul Reno non c’era neppure una nuvola scura. Quando mezz’ora dopo attraversammo il nuovo ponte Pierre-Pflimlin ad Altenheim, il fiume scintillava sotto un cielo estivo del blu più intenso, scorrendo placido verso nord.

E invece quella mattina un nuvolone nero sarebbe stato il minimo, come presagio visibile della sventura che ci aspettava, oltre alla cucina e al pallone, sull’altra sponda del fiume.

DUE

Così il pullman proseguì tranquillamente il suo viaggio attraverso il tratto francese della Fossa Renana. I musicisti ne approfittarono per tirare fuori gli strumenti e riscaldarsi un po’, intonando un valzer allegro. Martha canticchiava la melodia carezzandomi maternamente la coscia.

“Vedrai che ti divertirai.” Smise di cantare per un attimo. “E poi è così tanto che non vai a Scherwiller.”

Era stata Martha a convincermi a partecipare alla sfida culinaria tra Baden e Alsazia. Si era mossa con grandissima abilità, questo dovevo riconoscerglielo. Una chiamata un paio di settimane prima, proprio nel momento in cui il dolore per la separazione da Ecki si faceva sentire con più violenza perché la vacanza nella Wachau e tutti gli altri progetti insieme erano sfumati. Ora che ero di nuovo single voleva farmi un regalo, mi aveva annunciato senza tanti preamboli. Mi avrebbe pagato un corso per cuochi professionisti tenuto a Strasburgo da Gaston Deville, il miglior pasticciere di Francia. “Potrai stare da noi, da qui a Strasburgo è un attimo, e già che ci siamo partecipiamo alla sfida culinaria a Scherwiller.”

Avevo accettato. Per via del dolore per Ecki, per la vacanza saltata e per Deville. Della sfida culinaria mi ero completamente dimenticata finché qualche giorno prima Martha me ne aveva parlato nei minimi dettagli. Sede della gara: la salle polyvalente di Scherwiller, una cucina scolastica, due brigate di cuochi, tre portate, trecento porzioni, quattro ore di tempo. Il menu del Baden: gnocchetti di midollo in brodo con crespelle, spalla di maiale con crema di rafano e insalata di patate, per dessert torta di ciliegie della Foresta Nera. Perfetto per il contraltare alsaziano: pâté en croûte, coq au Riesling, tarte aux myrtilles. Ma per il resto di perfetto non c’era niente: una cucina che non conoscevo, neanche un professionista nella nostra brigata tranne Martha e me. E Martha, con cui in cucina non mi ero mai trovata, come capocuoco. Non poteva che andare a finire male.

Due giorni prima aveva chiamato a raccolta la brigata per preparare i piatti. Anche se non vedevo Felix da un’eternità, mi era bastato uno sguardo ai suoi occhioni da cucciolo per capire chi avevo davanti. La gomma da masticare era sparita, adesso invece era un appassionato cuoco dilettante. Coltelli di marca, una giacca da chef personale, abbonamento alla rivista Beef. Quel tipo di cuoco. Probabilmente sapeva grigliare una bistecca come si deve, lasciando la cucina nel caos più completo, ma per il resto?

Beef era vangelo anche per Pascal Eckerle, il secondo uomo della truppa. Alto, ben piantato, persino in cucina indossava pesanti abiti sportivi. Era un tipo energico e amante della carne, capace di squartare un bue o di cavarsela alla griglia, entrambe qualità che non avrebbero apportato alcun vantaggio alla nostra sfida. Completavano la nostra brigata Erna Burger e Hedwig Lang, una secca secca e l’altra rotonda, due signore di campagna di una certa età. Buone a sgobbare, messe sotto pressione non perdevano la calma. Erna però era una fanatica delle spezie Fondor, che all’occorrenza spargeva a piene mani, mentre Hedwig amava le polverine chimiche della marca Dr. Oetker.

“Hedwig,” aveva detto entusiasta Martha, “è la regina dei dolci di Fautenbach. Sforna delle torte meravigliose! E anche dessert, ovvio. Certo, sono contenta che ci sia anche lei, però…” E via a spettegolare che, da quando l’anno prima il marito l’aveva piantata in asso, Hedwig era soprattutto alla ricerca di un uomo, e adesso aveva messo gli occhi su Pascal Eckerle, l’eterno scapolone, il quale però si faceva desiderare. Mi ero limitata ad alzare gli occhi al cielo. I rapporti difficili in cucina sono una garanzia sicura di insuccesso. La sfida culinaria, ripeto, non poteva che andare a finire male.

Al nostro fianco sfrecciavano campi di grano mietuto, pascoli e interminabili piantagioni di granturco. Chiusi gli occhi pensando al Giglio Bianco, il mio ristorante abbandonato a Colonia. Dalla sua apertura, sette anni prima, quella era la prima volta che mi concedevo due settimane di ferie. Se anche soltanto sei mesi prima qualcuno mi avesse detto che avrei trascorso quella vacanza così meritata andando in pullman a una gara di cucina, gli avrei mostrato il dito medio. E invece adesso che l’amore era di nuovo finito nel cesso e non volevo starmene in eterno con il morale sotto i tacchi, qualsiasi tipo di distrazione mi andava bene.

Mais, mais e ancora mais. Sul lato tedesco l’ottanta per cento della superficie complessiva della Fossa Renana era coltivato a granturco, su quello francese non molto di meno. Pensai alla grande moria di api di quattro anni prima, provocata dagli agenti chimici impiegati per annientare i parassiti del mais. L’indignazione pubblica di allora si era spenta da tempo senza che vi facesse seguito una qualche riduzione dei campi di granturco, anzi. I lobbisti dei produttori di sementi si sarebbero sfregati le mani sino alla fine dei loro giorni, visto che erano riusciti a imporre il mais all’Unione Europea anche come base per il biogas. Era una cosa che non cessava d’indignarmi.

Ogni volta che ci pensavo mi veniva il nervoso. Tanto più che il ricordo della moria delle api mi colpiva in modo particolare, perché a essa era legata la morte della mia madrina Rosa. Rosa, cui avevo voluto molto bene. Rosa, che negli anni difficili della mia adolescenza mi era stata di gran lunga più vicina della mia madre biologica.

“Oh, guarda, le cicogne!” esclamò quest’ultima strappandomi ai miei pensieri e indicando fuori dal finestrino. “Ci salutano. La cicogna è il simbolo dell’Alsazia.”

Su un campo mietuto atterrarono tre, quattro, cinque esemplari. Per ultimo, con uno svolazzo impacciato, si posò anche un piccolo.

“Di che cosa sa di preciso la cicogna?” chiese Felix.

“Quella del Baden o quella dell’Alsazia?” ribatté Pascal.

“Sulla sponda destra e su quella sinistra del Reno, la cicogna sa sempre di rana,” rispose Erna. “Proprio come il gatto sa di topo.”

Quel commento mi fece pensare ad Antoinette, l’amica alsaziana di Rosa. Anche lei avrebbe risposto così. Dalla morte di Rosa non l’avevo più vista, e a un tratto fui felice di andare a Scherwiller: avrei potuto approfittare di quella gita per fare una scappata da lei.

In lontananza, i paesini della Strada alsaziana del Vino si susseguivano come perline messe in fila: Obernai, Heiligenstein, Barr, Dambach-la-Ville. Località strette una accanto all’altra nelle valli e sui contrafforti dei Vosgi, graticci, fiori, stradine, vecchie chiese, orgogliose aziende vinicole, ristoranti di classe. Un paesino da fiaba dietro l’altro! Scherwiller, così mi raccontava Martha, aveva dovuto lottare per conquistarsi un suo posto in quella ridda di località spettacolari. Situato ancora in pianura, con vigneti che si spingevano nel cuore della valle del Reno, da tempo quel posto non figurava più tra le tappe obbligate dei turisti della Strada del Vino. Ma poi lo straordinario Riesling che vi si coltivava, il grazioso centro del paese e il tripudio di fiori lussureggianti hanno attirato sempre più visitatori.

Käshammer attraversò una piccola zona industriale, giunse a Scherwiller e arrestò il pullman sulla piazza del mercato, che lì si chiamava place de la Libération. I calciatori furono i primi a scendere, seguiti dai musicisti e dal consiglio comunale; noi cuochi costituimmo la retroguardia. Insieme ci dirigemmo a un tavolo allestito fuori dal municipio, dove ci aspettavano il sindaco e alcuni membri della Confrérie des Rieslinger, pronti a dare il benvenuto agli ospiti con un vin d’honneur e una fetta di gugelhupf.

Non c’era neppure una nuvola a oscurare il cielo azzurro, nei vasi di fiori ronzavano le api, sotto la mairie gorgogliava l’Aubach, sulla piazza antistante badenesi e alsaziani schiamazzavano in alemanno, che si parlava su tutte e due le sponde del Reno, brindando all’amicizia franco-tedesca, alla salute, alla prosperità e ai prossimi quarantacinque anni.

Dopo esserci messi tutti in posa per una foto di gruppo, chiesi a un uomo del posto dove trovare un taxi e promisi a Martha di essere di ritorno al massimo entro un’ora.

Kientzville, dove abitava Antoinette, distava da Scherwiller più o meno tre chilometri. Quando vidi apparire le prime idilliache casette di legno, improvvisamente fui presa dalla paura di essere arrivata troppo tardi. Come quattro anni prima ero arrivata troppo tardi da Rosa. Antoinette aveva superato gli ottanta da un pezzo: chissà se era ancora viva? E se sì, chissà se viveva ancora nel suo villino?

Ma quando il taxi si fermò davanti alla sua abitazione, la vidi uscire dalla porta come se mi stesse aspettando. Ancora alta e piena di energia, ancora con il rossetto sulle labbra, ancora con gli occhi vispi e in mezzo il possente naso adunco. Una roccia nel tempestoso mare della vita, che spesso con lei non era stata generosa. Il nonno era caduto a Hartmannswiller nel 1915, il papà a Stalingrado nel 1943, il marito era rimasto vittima di un incidente automobilistico nel 1956 e il figlio era affogato nell’Atlantico nel 1969. Un’esistenza con quattro uomini morti sul groppone. “A quel punto, o vai a fondo o ti rafforzi per il resto della vita,” mi aveva detto una volta, mettendo bene in chiaro quale delle due strade avesse scelto. Mi affrettai a pagare la corsa e la raggiunsi.

“Catherine! Quelle surprise!” Mi abbracciò e mi avvolse in una nuvola del profumo che non aveva mai cambiato. Dopo i tre bisous d’ordinanza, mi disse: “Stavo proprio per andare a fare la mia petite promenade ed ecco che arrivi tu. Accompagnami. Mais alors, come mai sei qui?”

Vidi che usava un bastone e che non si reggeva saldamente sulle gambe. Percorremmo adagio adagio le stradine passando davanti alle casette di legno che dopo la guerra il fabbricante di tessuti Kientz aveva fatto costruire dal nulla per i suoi operai dai prigionieri di guerra tedeschi. Allora Kientzville era diventata famosa come la più giovane cittadina di Francia. Alcune di quelle abitazioni avevano ancora lo stesso aspetto di un tempo, altre erano state ampliate e ristrutturate, e si era aggiunta anche un’area di nuova urbanizzazione. Per me però quel posto non aveva perso niente del suo fascino idilliaco. Dalla mia prima visita, ero convinta che lì crescessero soltanto bambini allegri in famiglie felici.

Naturalmente Antoinette era al corrente della festa e della sfida culinaria e avrebbe partecipato, perché il maire aveva invitato in special modo tutti i superstiti del primo incontro. Per loro era stato allestito un tavolo d’onore, perché dopotutto erano stati loro ad avviare e a dare vita al jumelage. Se soltanto Rosa fosse stata ancora viva…

Rosa e Antoinette si erano conosciute in quella prima occasione e me ne avevano raccontato spesso la storia. Quando quelli di Fautenbach erano venuti per la prima volta in visita alla cittadina gemellata francese, Rosa si era presentata subito dal sindaco per essere della partita. Antoinette invece aveva esitato a lungo prima di registrarsi alla mairie per accogliere un ospite tedesco. Al paese in molti, ripeteva sempre Antoinette, erano stati contrari quando il maire Haag aveva proposto Scherwiller come partner della tedesca Fautenbach. Dopo la guerra, con i tedeschi non volevano avere più niente a che fare. Alla fine per Antoinette erano stati decisivi de Gaulle, di cui era una grande ammiratrice, e la sua foto mentre abbracciava Adenauer dopo la firma del Trattato dell’Eliseo: se il generale poteva fare pace con i tedeschi, l’avrebbe fatta anche lei. E poi era davvero curiosa di conoscere i visitatori in arrivo dalla Germania.

E così aveva incontrato Rosa. Entrambe erano vedove e vivevano sole, entrambe erano donne straordinariamente sicure di sé e indipendenti. Due persone che non si erano cercate, ma avevano finito per trovarsi comunque. Nel periodo in cui avevo vissuto con Rosa, ogni tanto mi era capitato di accompagnarle quando una faceva visitare all’altra la propria patria: Strasburgo e Friburgo, il Grand Ballon e l’Hornisgrinde, il castello di Haut-Kœnigsbourg e il Brigittenschloss, la Linea Sigfrido e l’Hartmannsweilerkopf, l’Illenau a Achern e il campo di concentramento di Struthof. Il carnevale alemanno e il bal des veuves, le feste del vino a Waldulm e Ribeauvillé, la torta di ciliegie della Foresta Nera a Baden-Baden, la glace-meringue a Sélestat. “Con noi,” solevano dire entrambe, “l’amicizia franco-tedesca ha funzionato.”

Sebbene la passeggiata l’avesse stancata, al ritorno Antoinette non volle saperne di non riaccompagnarmi a Scherwiller. Guidava ancora l’automobile, una vecchia 2CV, e con una risolutezza straordinaria. Tre rapidi baci di commiato e una nuvola di profumo. Ci saremmo riviste quella sera.

Mi lasciò davanti alla winstub Mueller, dov’era alloggiata la nostra brigata di cuochi. Al di là dell’ampio cancello d’ingresso vidi muri ricoperti di tralci e un biergarten. Davanti alla scala che portava all’ingresso, Martha era intenta a distribuire ciotole di creme e stuzzichini su tre tavolini alti su cui erano già disposte alcune flûte da spumante. Quando mi vide, tirò subito fuori dalla tasca della giacca una chiave facendo schioccare la lingua con aria stizzita.

“Hai la camera numero sette, ti ho lasciato la valigia sul letto. Presto, sbrigati, i francesi arrivano tra cinque minuti. Prendiamo l’aperitivo insieme prima di cominciare a cucinare.”

Il suo solito tono di rimprovero. E ad Antoinette neanche un saluto. A Martha gli amici di Rosa non erano mai piaciuti. Presi la chiave senza dire una parola, entrai nella locanda e seguii il cartello “Chambres”. La mia stanza era al secondo piano e affacciava sulla strada. Da fuori arrivavano il gorgoglio dell’Aubach e un brusio di voci. Mi sporsi dalla finestra e vidi Felix e Pascal accanto a un vecchio lavatoio in pietra proprio sull’Aubach.

“L’ultimo appezzamento di terra sulla strada di Scherwiller,” sentii che stava dicendo Pascal. “Lo sai che le aree edificabili a Fautenbach sono sempre più care. Se non compro quel terreno adesso, poi non me lo potrò più permettere. Ho aspettato davvero tanto, Felix, adesso ho bisogno che tu mi restituisca i soldi.”

“Nessuno poteva immaginare che la vetreria avrebbe chiuso. Ottanta per cento di contratti in meno, cerca di capire. Altrimenti non avrei mai comprato quei due camion.”

Felix, che fumava di nuovo, faceva nervosamente su e giù sulle strette pietre del lavatoio, mentre Pascal stava a braccia conserte come inchiodato sul posto. Indossava una t-shirt sbiadita, pantaloni pieni di tasche e scarpe da ginnastica gialle. Come il più classico degli scapoli, sembrava del tutto incurante del proprio aspetto.

“E che mi dici dell’eredità?”

“Per quella ci sarà da aspettare un bel po’. Lo sai anche tu che ci vuole tempo per sistemare queste cose.”

“Allora vendi i camion,” insistette Pascal.

“Ma così andrei in perdita,” si lamentò Felix. “Dopotutto sei il mio migliore amico. Perché non puoi aspettare ancora?”

“Sai benissimo perché voglio proprio quel terreno. Perché dà direttamente sulla strada. E di quella strada ho bisogno, è la mia riserva di caccia.”

“In che senso, la tua riserva di caccia?” Felix gettò via la sigaretta solo per accenderne subito un’altra.

Roadkill cuisine,” rispose secco Pascal, e io mi sporsi un po’ di più perché non avevo mai sentito parlare di carne ricavata dagli animali investiti.

Roadkill cuisine,” ripeté Felix allibito. “Non starai mica dicendo sul serio, vero? Maledetto il giorno in cui hai iniziato! Se soltanto non ti avessi mai regalato il libro di ricette di quel McGowen! Prima di scoprire la roadkill cuisine non avevi tutta questa fretta di costruire. E la nostra amicizia? Per te non conta proprio niente? Mi manderesti in bancarotta soltanto per quella stupida carne?”

“Non è stupida! È una filosofia di vita che sottoscrivo pienamente. Lo sai benissimo che buona parte della carne che compriamo è gonfia di sostanze chimiche. La roadkill cuisine è naturale al cento per cento, nessuno di quei criminali dell’industria della macellazione ci ha messo sopra quelle sue zampacce luride! Per un carnivoro non esiste maggior rispetto per il Creato che mangiare solamente gli animali che sono comunque già morti. Non sai quante bestie vengono ammazzate per le strade! Gatti, volpi, tassi, ratti, conigli, qualche volta caprioli. Dalla strada posso portarmi a casa un arrosto ogni giorno.”

“E per la tua carne io devo chiudere bottega. Perché a te piace l’arrosto di animali travolti dalle macchine!”

“Non travolti, soltanto quelli uccisi,” lo corresse Pascal con aria serissima. “Lo sai che non utilizzo animali schiacciati. Il ragù di civetta non ti è forse piaciuto? E la salsa alla bolognese con la carne di volpe?”

“D’accordo, ma da lì a costruirci sopra una filosofia di vita ce ne passa!” Felix aspirava disperatamente la sua sigaretta. “E men che meno si compra un terreno edificabile solo per questo motivo. Cioè, che cosa sono un paio di volpi e di ratti in confronto a due camion?”

Il mio cellulare squillò, era Martha che me ne diceva quattro perché non ero ancora scesa. “Ehi,” gridai ai due uomini. “In cortile c’è l’aperitivo.”

Come se li avessi beccati a fare qualcosa di proibito, alzarono lo sguardo e si affrettarono ad annuire. Chiusi la finestra e presi dalla valigia la mia borsa dei coltelli e la divisa da cuoca. Scendendo incontrai Hedwig, che aveva nascosto il corpo piccolo e tondo in un abito rosa con il colletto bianco. Fa molto pasticciera, pensai. Si unì a me e mi domandò del mio corso.

“Deville! Ho letto il suo libro sulle decorazioni in pasticceria. Puoi chiedergli se tiene anche corsi per dilettanti?”

Le dissi che lo avrei fatto e scesi con lei in cortile, dove incontrammo Pascal e Felix. Hedwig sorrise a Pascal e proseguì con lui, Felix si fermò e prese un’altra sigaretta dal pacchetto. Fumava le Roth-Händle, che già quando eravamo giovani venivano soprannominate Tot-Händle, mercanti di morte. Mi scoccò una delle sue malinconiche occhiate da cucciolo.

“Non ti avevo vista alla finestra,” mi disse accendendosi la sigaretta.

“E dire che non è che io passi proprio inosservata.”

“Giusto. Non tutti hanno i riccioli rossi e le lentiggini.”

“E non molti sono alti e robusti come me.”

“Lo sai che in terza avevo cercato di contare le tue lentiggini? Ero arrivato a trecentocinque.”

“Te la cavavi già con numeri così grandi?”

Per tutta risposta ricevetti un sorriso tirato, poi seguimmo Pascal e Hedwig ai tavolini, dove accanto a Martha ed Erna scorsi un paio di facce nuove, i componenti della brigata di cuochi alsaziana. Ci vennero presentati dal padrone di casa Pierre Mueller, un uomo che ricordava vagamente il francese della pubblicità del camembert: basso e robusto, con bei baffoni scuri e cappellino da baseball. Seguirono strette di mano, scambi di baci, brindisi con il Crémant d’Alsace di Scherwiller, bastoncini di pasta sfoglia intinti nel quark alle erbe.

“Da noi lo chiamano bibbeleskäs,” disse Erna. “E da voi? Fromage de bibbelebib?”

Bibbeleskäs come da voi!” rispose Pierre Mueller.

Ci fu un nuovo giro di brindisi.

“Questi vogliono farci sbronzare prima che ci mettiamo ai fornelli,” ridacchiò Hedwig già leggermente alticcia, quindi si appoggiò come per caso a Pascal, che le stava accanto.

Per un attimo immaginai un pasto nella futura casa della coppietta: carne fresca di strada, e per dessert una torta del laboratorio di cucina del Dr. Oetker. Poteva andare a finir bene?

“Manca ancora uno di noi, Luc,” disse Pierre. “Ma dov’è finito?”

“Accipicchia,” non si trattenne Hedwig. Si tirò su, raddrizzò il vestito confetto e si allontanò da Pascal.

Alzai gli occhi. Quel Luc stava venendo dritto verso di me. I nostri sguardi s’incrociarono e per la prima volta in quel giorno si fece viva la pancia: in un solo istante, era in completo subbuglio.

Fu Martha a metterci fretta, ammonendoci che non eravamo lì per divertirci, che si poteva festeggiare anche dopo, ma adesso bisognava mettersi ai fornelli. Perciò, marsch, in cucina! Al lavoro! Poco dopo Pierre Mueller ci mostrò la salle polyvalente e cominciammo a orientarci in una cucina sconosciuta. Portammo in cucina i nostri ingredienti, che prima il macellaio Jörger aveva sistemato in bell’ordine nella cella frigorifera. Mentre i francesi stavano ancora a perdersi in chiacchiere su chi dovesse lavorare dove, sul lato tedesco regnava il massimo zelo. Pascal posò sul fornello il pentolone con il brodo di manzo, Hedwig indossò il grembiule ornato di volant, Martha spostava gli ingredienti di qua e di là mentre Erna si era già appropriata del lavello per lavare le patate. Felix allargò i suoi coltelli proprio dove io volevo allestire la mise en place per il brodo. Hedwig chiese un mixer, Erna una pentola, Felix qualcosa da fare, Pascal, che nel frattempo si era armato di una grossa mannaia, cercava le ossa con il midollo.

Per l’ennesima volta mi resi conto del perché una brigata di cucina professionale abbia una struttura gerarchica così rigida. Sopra c’è lo chef de cuisine, sotto i vari ruoli: saucier, garde-manger, entremétier, pâtissier e così via. Compiti distribuiti in modo chiaro, così ognuno sa esattamente che cosa fare, e ognuno fa attenzione agli altri. La mise en place è il primo passo, significa preparare tutto l’occorrente per la propria pietanza. Solo con una buona preparazione si riesce a terminare insieme ai colleghi. Perché non c’è niente di più catastrofico che avere la carne pronta prima delle verdure o che il pesce si asciughi mentre si deve ancora sbattere la salsa. Tempismo preciso, ritmo comune: soltanto così può funzionare. E il ritmo è dato sempre dallo chef de cuisine. Lui è il capitano della brigata. Sera dopo sera, deve saper governare la nave nel mare in tempesta di trenta, quaranta, cinquanta ordinazioni diverse.

Aspettavo che Martha si decidesse ad assumere il comando, ma lei continuava a sistemare e a contare mentre gli altri trafficavano in maniera inconsulta e senza meta di qua e di là. Dovetti davvero fare violenza a me stessa per non prendere il timone di quella bagnarola alla deriva e stabilire la rotta giusta per la serata, perché quello era il compito di Martha. Lascia perdere, mantieni la calma, tanto lo sai che andrà tutto a rotoli, cercai di convincermi mentre mi giravo i pollici alla mia postazione.

Intanto i francesi, dall’altra parte della cucina, si stavano mettendo in moto; colsi un paio di ordini secchi da parte di Pierre Mueller e poco dopo senza tante storie erano ognuno al proprio posto e sembravano sapere esattamente cosa fare. Luc, un tipo alto e dalle spalle larghe, con i capelli biondi di media lunghezza legati in una coda di cavallo, mi scoccò un’occhiata divertita mentre issava un pesante pentolone di ghisa sul fornello. I suoi occhi mi piacquero: castani, pieni di calore.

Coq au Riesling, il mio compito è questo, e il tuo?” mi chiese.

“Un po’ di tutto,” risposi, sentendomi improvvisamente di umore migliore.

Une tournante,” commentò.

Oh oh, ecco uno che conosce i ruoli in una brigata di cucina! Il tournant è quello che rimpiazza i vari chef, uno che conosce tutte le attività.

“Io sono la pasticciera,” strillò Hedwig.

“Questo era evidente!”

Con un mestolo Luc indicò il suo grembiule. Lei se lo aggiustò ridacchiando. Affascinante, davvero affascinante, l’incaricato del pollo!

Au travail!” lo richiamò all’ordine Pierre Mueller che, come un vero chef de cuisine, aveva tutto sotto controllo, indicandogli le cipolle, il lardo e gli champignon che Luc doveva tagliare per il suo coq.

Sul nostro lato, Pascal lo prese come un invito a spaccare le ossa con tanta violenza che cominciarono a volare tutt’attorno come proiettili. Gli riportai quelle che erano finite sulla mia postazione. Perlomeno le risciacquò.

“Nel caso tu fossi interessata alla roadkill cuisine, passa pure da me. La volpe è gustosissima, ho provato un ragù che ha bisogno ancora di qualche piccolo tocco. Tu che sei una professionista…”

“Ma certo,” lo rassicurai, affrettandomi a filare via. Lo immaginai perlustrare le strade di buon mattino in cerca di animali travolti dalle auto, infilarli nello zaino da cui in precedenza aveva tirato fuori una mannaia, scuoiarli in cucina, staccare testa e coda, separare la carne dalle ossa e metterla a cuocere…

Intanto Erna armeggiava disperatamente al fornello, che non riusciva ad accendere, mentre Felix affilava per la seconda volta i coltelli e Hedwig cercava una pentola per le ciliegie sbatacchiando le stoviglie di qua e di là.

Avanti, Martha, fatti valere, la implorai mentalmente mentre accorrevo in aiuto di Erna ai fornelli. Metti fine a questo bailamme.

In cucina aleggiava già il lieve aroma del coq au Riesling, sul lato francese stavano spianando i fondi delle tarte, avevano messo in funzione il robot per sminuzzare le crudité, eliminavano i resti di foglie dai mirtilli. Avevano già l’aria di surclassarci alla grande quando a un tratto Pierre Mueller s’infilò dalla nostra parte, bisbigliò qualcosa all’orecchio di Martha e poi, senza aggiungere altro, tornò nel suo regno.

Qualunque cosa il piccolo francese le avesse sussurrato, aveva compiuto un miracolo. Martha raddrizzò la schiena, batté le mani, radunò la nostra scomposta brigata e finalmente cominciò a impartire istruzioni chiare. Il tempo stringeva, ci restavano soltanto due ore. E accadde ciò che avevo creduto impossibile: trovammo un ritmo comune. Felix preparava la spalla di maiale, Pascal raschiava il midollo dalle ossa con una cura straordinaria, Erna sminuzzava cipolle per l’insalata di patate, Martha tagliava fini fini le crespelle per il brodo, io spargevo lacrime tritando il rafano, Hedwig addensava le ciliegie, non senza prima aver fatto annusare e assaggiare a tutti – tedeschi e francesi – la sua acquavite di ciliegie della Foresta Nera, che alla fine sparse generosamente sulla frutta.

A un tratto in cucina si diffuse una stupenda atmosfera franco-tedesca, con tanta operosità e tante risate, e riuscii addirittura a far sparire le spezie di Erna prima che potesse usarle per “aggiustare” l’insalata di patate. Poi, quando le ordinazioni cominciarono ad arrivare alla spicciolata, mantenemmo la massima concentrazione, collaborando fianco a fianco per far uscire le varie pietanze.

In quel momento, non so se per caso o no, mi ritrovai vicino a Luc, e dopo gli occhi mi innamorai delle sue mani, che da una parte erano robuste e abituate al lavoro, e dall’altra spargevano una manciata di prezzemolo sul coq au Riesling con tanta delicatezza che non desiderai altro che essere carezzata da loro.

TRE

Stavo toccando il cielo con un dito quando sentii qualcuno pronunciare il mio nome da lontano. Non volevo nel modo più assoluto abbandonare quel paradiso, perciò ignorai i richiami, mi girai di lato, sprofondai la faccia nel cuscino e inspirai il profumo estraneo di cui era ancora impregnato.

“Luc,” mormorai muovendo la mano per raggiungere il suo corpo. “Luc.”

Mi tirai su a sedere e finalmente aprii gli occhi. Lo cercai in giro per la stanza, ma senza trovarlo. Scorsi invece mia madre, aggrappata allo stipite della porta: camicia da notte, capelli scarmigliati, sguardo nervoso. Martha, ovviamente. Chi altri poteva svegliarmi nel cuore della notte? Mi lasciai cocciutamente ricadere sul cuscino e, tirandomi il piumino fin sopra la testa, richiusi gli occhi. Ma ormai la strada per il paradiso era sbarrata.

“Katharina! C’è uno steso là fuori! Presto, alzati!”

Sentii un rumore di passi affrettati e poi la mia coperta venne scostata bruscamente di lato. Accorgendosi che ero nuda, Martha la lasciò ricadere subito. Era una cosa che detestavo da sempre, quando mi tirava via le coperte. Perché mi alzassi una buona volta. Perché facessi quello che voleva… Perlomeno quel giorno si sentiva in imbarazzo. Distolse lo sguardo mentre armeggiavo con il lenzuolo per riavvolgermici dentro.

“Affacciati alla finestra.”

Avanzai a piedi nudi e a passi incerti sulla moquette. Nella stanza aleggiava ancora l’odore di Luc, Martha non era riuscita a scacciarlo. Indicò la finestra, ma si ritrasse di nuovo verso lo stipite. Guardai fuori. La luce dell’aurora era velata, la strada deserta, le imposte delle case di fronte chiuse. Su tutto regnava ancora il silenzio della notte, soltanto il ruscello gorgogliava piano. Doveva essere ancora presto, tra le quattro e le cinque, pensai. Alla prima messa mancava ancora un bel po’. E quindi, se non dovevo chiedere perdono dei miei peccati, che cosa voleva mia madre da me?

“Nel torrente! Non vedi?”

Oh! Sì, adesso vedevo. Nell’acqua c’era qualcuno. All’altezza dei lavatoi, più o meno dove il pomeriggio prima avevo visto Felix e Pascal.

“Troppo Riesling,” mormorai.

“Devi andare a vedere che cosa gli è successo,” mi esortò Martha.

Lo disse con la sicurezza di chi ha scritto in fronte che non ci pensa proprio a sobbarcarsi questo compito. Ero ancora troppo debole per opporre una qualche forma di resistenza, perciò tirai su il lenzuolo e uscii in strada incespicando, diretta ai lavatoi.

Passando sfiorai con il braccio i gerani rampicanti che crescevano nei vasi appesi alla ringhiera. Non mi sembrarono umidi né avvertii il fresco del mattino. Intontita dal sonno, stordita dall’amore e annebbiata dall’alcol, scesi ai lavatoi e guardai l’uomo che giaceva immobile a pancia in giù, con la faccia completamente nell’acqua del torrentello.

Vidi subito che, per quanto Riesling avesse bevuto, non era quello il motivo per cui era finito nell’Aubach. Fissai il foro nella sua testa da cui fuoriusciva un miscuglio disgustoso di massa cerebrale, capelli bianchi, sangue e ossa. La ferita brutale formava un contrasto bizzarro con l’acqua, che scorreva chiara e limpida, silenziosa e cauta, impassibile e fredda attorno a quella testa maciullata.

Soltanto a una seconda occhiata notai il coltello nella schiena. Era affondato nella scapola destra, e attorno al punto d’ingresso spiccava un piccolo bordo rosso. Non si vedeva altro, era una ferita davvero pulita al confronto di quella alla testa. Il coltello aveva una sottile impugnatura di legno nero con un pomello d’acciaio: lo riconobbi perché il mio coltello da disosso ne aveva una esattamente uguale. Era stato realizzato dal fabbro Solinger, non era un pezzo unico, ma era comunque un buon coltello, che non tutti si potevano permettere. Ma il mio coltello da disosso era nella mia borsa nella cucina della salle polyvalente. O no?

Dovevo accertarmene, perciò tirai su il lenzuolo e m’inginocchiai sulla pietra. Il torrente non doveva essere più largo di due metri e mezzo. Quando mi allungai per chinarmi sulla schiena del vecchio, il mio stomaco rumoreggiò pesantemente, deglutii a vuoto e mi costrinsi a studiare con attenzione il legno sotto il pomello d’acciaio. Trovai in fretta la piccola bruciatura, frutto del breve incontro fra legno e fiamma del gas nella frenesia della cucina del Giglio Bianco. D’un tratto ero perfettamente sveglia, perché quello nella schiena del morto era il mio coltello da disosso. Proprio il mio.

“È Emile, Emile Murnier.”

Per lo spavento rischiai di finire in acqua. Mi affrettai a stringere il lenzuolo sul seno, poi mi ritrassi e mi voltai: davanti a me c’era Pierre Mueller in pigiama, e alle sue spalle spuntava Martha. Sulla sua camicia da notte svolazzavano farfalle rosa, il pigiama di Pierre era a scacchi verdi e blu ed era abbottonato storto. Quali stupidaggini si notano dopo aver appurato che il proprio coltello è stato usato per compiere un delitto!

“Come si chiama quest’uomo?” chiese Martha a Pierre.

Pierre ripeté. Non avevo sentito male. Murnier. Il cognome di Luc. Luc, che quella notte avevo accolto nel mio letto. Luc, che non c’era più quando Martha mi aveva svegliata. Luc, che era scomparso, e il mio coltello da disosso piantato nella schiena di un cadavere. Una gran quantità di notizie spiacevoli per un’alba domenicale.

“Devi chiamare la polizia,” disse Martha a Pierre.

“Vado a vestirmi,” borbottai io.

Volevo allontanarmi dal morto, da Martha, avevo assolutamente bisogno di stare da sola. Perché era stato proprio un brutto colpo.

E dire che dopo la storia di Ecki mi ero ripromessa di non mettere mai più piede nel campo di battaglia dell’amore. Non se ne esce mai indenni, ogni volta c’è una nuova trappola in cui si rimane invischiati, ci si procurano sempre ferite nuove. Momenti di felicità pagati a caro prezzo, e alla fine lo strazio!

E invece la notte prima mi ero buttata tra le braccia di quell’uomo senza pensarci e a vele spiegate. Che lo avrei fatto lo avevo già capito quando mi aveva guardata per la prima volta nella winstub Mueller. Quegli occhi! Di un castano intenso, il colore dell’autunno. Avevamo ballato insieme il valzer musette, allacciati stretti, i piedi che si muovevano allo stesso ritmo, il battito del cuore sincronizzato. Mani che volevano andare dappertutto, sguardi che spogliavano. Santo cielo, ero stata sul punto di esplodere già mentre ballavo. Un miracolo che fossimo riusciti a raggiungere la camera d’albergo.

Davanti alla quale adesso mi trovavo di nuovo. Entrai. Martha aveva lasciato la finestra aperta. L’odore di Luc si era volatilizzato, come se non fosse mai stato lì. Cercai altre tracce di lui. Nel letto, sotto il letto, tra le lenzuola. E poi in bagno. Niente. Quando era sparito? E perché il mio coltello da disosso era piantato nella schiena di un morto?

In realtà avrei voluto correre subito alla salle polyvalente a cercarlo, con la minuscola speranza di trovarlo ancora nella mia borsa, ma adesso non potevo scappare via. Pierre Mueller aveva allertato la gendarmerie e la polizia sarebbe arrivata a momenti. Feci una doccia fredda e mi vestii.

“Vengono da Sélestat,” mi disse Pierre quando raggiunsi lui e Martha nella winstub. Pierre, adesso in camicia e pantaloni, Martha con un vestito estivo color lilla che non le avevo mai visto prima. “Arrivano a momenti!”

Quando poco dopo Pierre spinse verso di me sul bancone un caffè, lo ringraziai con un cenno del capo. Ormai l’orologio al centro dello scaffale dei liquori dietro di lui segnava le cinque. Le lancette erano un becco di cicogna aperto. Il caffè mi ustionò lo stomaco troppo acido. Non servì a schiarirmi la mente, il giorno prima avevo esagerato con il Crémant d’Alsace.

Avevo appena svuotato la tazzina quando arrivò la gendarmerie. Due giovanotti in uniforme blu, entrambi piuttosto bassi, uno con la pelle coriacea da nordafricano, l’altro con i segni di acne in faccia. Parlavano soltanto francese. Pierre spiegò loro l’accaduto, quindi li accompagnò all’Aubach. Martha e io li seguimmo tenendoci a distanza. Regnava ancora la calma del primo mattino, dormivano tutti, in paese nessuno si era ancora accorto di quanto era successo. Ma c’era almeno una persona che sapeva del morto nell’Aubach: l’assassino.

Come avevo fatto io, i due gendarmi scesero la scala che portava ai lavatoi, e da lì osservarono il morto, discussero brevemente tra loro, quindi quello con l’acne prese il telefono. L’altro andò in fretta alla macchina e tornò con un rotolo di nastro per isolare la scena del crimine. Mentre l’uomo con la pelle coriacea la metteva in sicurezza, il foruncoloso ricominciò a parlare con Pierre, quindi con un gesto chiamò Martha e me. Prese i nostri dati e mi domandò se fossi entrata nell’acqua, se avessi toccato il corpo, se avessi notato qualcosa di particolare, se conoscessi il morto e così via. Pierre traduceva, il mio francese non era abbastanza buono. Risposi con sincerità, soltanto del coltello non feci menzione.

“Hanno informato la Section de recherche di Strasburgo,” ci sussurrò poi Pierre. Era l’equivalente della polizia criminale tedesca. “Dobbiamo tenerci a disposizione, vogliono parlare di nuovo con noi.”

Ma non subito, lo sapevo. Per arrivare da Strasburgo a Scherwiller avrebbero impiegato come minimo mezz’ora, quanto bastava per cercare il mio coltello. Dal cuoco avevo saputo che Pierre aveva una chiave della sala, perciò gliela chiesi, mormorando qualcosa a proposito di un borsellino smarrito che speravo di ritrovare là. Rimase sorpreso che volessi cercarlo proprio in quel momento, ma comunque me la consegnò senza altre obiezioni.

salle polyvalente