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Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Della stessa Autrice:

Delitto al pepe rosa. Il primo caso della cuoca Katharina Schweitzer

Morte sotto spirito. La cuoca Katharina torna a casa

Assassinio à la carte. La cuoca Katharina e la mafia turca

Titolo originale: Bienenstich

© 2009 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

I edizione italiana: gennaio 2018

Impaginazione: Cèsar Satz & Grafik GmbH, Colonia

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-370-7

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Via Amedeo Avogadro 62

00146 Roma

www.emonsedizioni.it

BRIGITTE GLASER

MIELE AMARO

La cuoca Katharina e l’eredità pericolosa

Traduzione di Alessandra Petrelli

A Bernd, Beate e Martina

Elenco dei personaggi

Katharina Schweitzer – cuoca di talento, proprietaria del ristorante Il Giglio Bianco a Colonia

Rosa Schweitzer – zia di Katharina

Martha – madre di Katharina, proprietaria e cuoca della locanda Il Tiglio a Fautenbach nella Foresta Nera

Edgar – padre di Katharina e fratello minore del marito di Rosa

Ottilie – sorella di Rosa, ricoverata alla casa di riposo Spirito Santo

Michaela – figlia di Ottilie

Traudl – anziana vicina di casa di Rosa

Elsbeth – figlia di Traudl, direttrice della casa di riposo Spirito Santo

Antoinette – amica alsaziana di Rosa

FK (Fritz Karl) Feger – giornalista del Gazzettino di Achern e Bühl, ex compagno di scuola di Katharina

Markus Weber – amico d’infanzia di Katharina, agricoltore

Günther Retsch – imprenditore edile, figlio del defunto Emil

Adrian Droll – rappresentante della Meranto, azienda chimica che produce pesticidi

Nicole Räpple – giovane impiegata della banca del consorzio agricolo

Franz Trautwein – apicoltore amico di Rosa, fa parte della Guerriglia del mais

Tobias Müller – ex infermiere della casa di riposo Spirito Santo e militante della Guerriglia del mais

Ecki Matuschek – eterno fidanzato di Katharina

Uno

Nove polli senza testa sgambettano qua e là scatenati, mentre il sangue spruzza a zig-zag sul pavimento di piastrelle grigie. Brandendo una mannaia, inseguo il decimo pollo per la cucina imbrattata di sangue. Il menù prevede coq au vin, in sala i clienti affamati cominciano a innervosirsi. L’ultimo pollo vivo schiamazza agitato e tutte le volte che cerco di afferrarlo per il collo mi sfugge con furiosi colpi d’ala. Per cominciare a cucinare devo decapitare anche lui, poi spennarli ed eviscerarli tutti e dieci.

Il telefono mi strappò da questo bagno di sangue avicolo. Un incubo professionale. Ai cuochi capita spesso di sognare macelli del genere.

“Pronto?” gracchiai nella cornetta.

“Potresti almeno dire buongiorno!”

Me n’ero andata di casa da venticinque anni, ma mia madre continuava imperterrita a buttarmi giù dal letto all’alba con un tono da caserma. Di solito approfittava del mio stato comatoso per sommergermi di rimproveri: non mi facevo mai sentire, non mi importava niente dei miei genitori, dimenticavo sempre le feste comandate.

“Mamma,” gemetti cercando di scacciare i polli decapitati dalla mia testa. “Che vuoi stavolta?”

“È morta zia Rosa.”

I polli svanirono all’istante, al loro posto provai una stretta allo stomaco che si contrasse in un grumo duro e doloroso.

“Il funerale sarà venerdì,” sentii dire a mia madre, “sarebbe meglio se tu venissi oggi stesso, anche per via del testamento.”

Il nodo allo stomaco si strinse ulteriormente. Mi appoggiai al muro e scivolai a sedere sul pavimento, le ginocchia strette al corpo per cercare di alleviare il dolore.

“Katharina? Verrai, vero?”

“Sì,” mormorai, e riagganciai.

Un tram mattutino sferragliò sul Gotenring, il bassotto dell’appartamento sopra di noi abbaiò, un’auto si mise in moto in Kasemattenstraße. La città si svegliava. Senza di me. Io non c’ero.

Dall’immaginario massacro di polli la mia mente tornò a Rosa e alla sua usanza di uccidere il maiale in casa. All’inizio degli anni Settanta nessun allevatore abbatteva più gli animali in casa propria, tutti portavano maiali e vitelli direttamente al macello, per poi ritirare insaccati e tagli di carne pronti da congelare. Rosa era un’eccezione. Un macellaio della regione di Hanau, invalido di guerra con una gamba sola, ammazzava e preparava il maiale per lei. Dovevo avere otto o nove anni la prima volta che partecipai all’evento. La zia mi costrinse a guardare lo zoppo che abbatteva il maiale. “Ha paura di morire, come qualunque essere vivente,” mi disse, mentre l’uomo premeva il dardo sulla fronte dell’animale che grugniva. “Guardalo negli occhi,” mi ordinò. “Muore, così nei prossimi mesi noi avremo da mangiare. Mangi o sei mangiato, ecco come vanno le cose a questo mondo.” Scioccata, mi resi conto del silenzio che ammantava il cortile dopo che il macellaio aveva liberato il maiale dalle sue paure. Non aspettai che scottasse la bestia morta con acqua bollente e rimuovesse le setole con un raschietto. Barcollai fino alla bicicletta, montai in sella e pedalai come una forsennata in Talstraße, lungo il torrente, sempre più veloce, fino a sentire il vento fischiarmi nelle orecchie. Non volevo più tornare da Rosa. La odiavo perché era troppo brutale, diretta. Lei non si perdeva in tante cerimonie.

Ero ancora rannicchiata come un embrione quando qualcuno mi toccò la spalla facendomi trasalire.

“Kathi,” mormorò Ecki. “Hai fatto un brutto sogno?”

“È morta Rosa,” gli spiegai.

“Rosa?” chiese lui.

Non avevo parlato di Rosa neppure a Ecki! Come avevo potuto dimenticarmi di lei per così tanto tempo?

“Mia zia, la mia madrina.”

“Magari ti ha lasciato un’eredità!” esclamò mentre cercava dei fazzoletti di carta per me in bagno. “Qualche soldo in più potrebbe tenere a galla te e il Giglio Bianco per i prossimi sei mesi. Pensi che ci sia qualcosa da ereditare?”

“Erano dieci anni che non mi facevo viva con lei,” mugugnai.

Ecki tirò fuori un fazzoletto e me lo porse. “Dieci anni fa è stato quando ci siamo conosciuti,” osservò.

Non appena lo disse mi tornò in mente l’ultima volta che avevo visto Rosa. Le nozze d’argento dei miei genitori, una grande festa di famiglia. Io, fresca di fidanzamento, ero a Fautenbach per la prima volta con Ecki. Mentre lui ammaliava l’una dopo l’altra zie e cugine con il suo fascino viennese, Rosa mi aveva preso da parte.

“Quello li è un farfallone rubacuori!” mi aveva sussurrato. “Lascialo perdere prima che ti faccia soffrire per davvero.” Decisi di non presentarle Ecki e a lui non raccontai ciò che la zia aveva detto sul suo conto, anzi non gli raccontai proprio niente di lei. L’aveva tacciato di essere un rubacuori e la cosa mi aveva offeso, come tante altre volte. Invece aveva ragione lei, come tante altre volte.

Un paio d’ore più tardi sfrecciavo sull’autostrada per Francoforte diretta a sud. Mentre il sole tramontava dietro le sette colline, Billie Holiday cantava Travelin’ Light, uno dei pezzi preferiti di Rosa. Aveva riportato il disco dall’America, insieme alla musica di Glenn Miller, quando alla fine degli anni Quaranta era arrivata a Fautenbach con Karl. I due si erano conosciuti a New York, dove lei aveva lavorato come cuoca e Karl come “cioffr”, per usare l’inglese dal marcato accento tedesco della zia. Solo dopo due anni di lezioni di inglese avevo capito che “cioffr” altro non era che chauffeur.

Ascoltare musica con Rosa era un’attività riservata ai freddi pomeriggi invernali, quando non c’era niente da fare nei campi e nell’orto, e potevo interrogarla sulla sua vita a New York. Non rispondeva a tutte le domande. Della sua musica americana, da bambina mi piacevano i pezzi allegri e veloci come Chattanooga Choo Choo, oppure Pennsylvania 6-5000, in particolare quando ballavamo insieme il boogie. Per apprezzare il triste blues di Billie Holiday dovetti aspettare la prima volta che qualcuno mi spezzò il cuore.

Era passata mezzanotte quando lasciai l’autostrada ad Achern. Alle porte di Fautenbach, l’enorme cipolla di legno mi fece tornare subito in mente Rosa. Nell’eterna competizione con Traudl, aveva spesso soffiato alla vicina il primo posto in occasione dell’annuale Sagra delle cipolle. Eppure era Traudl ad avere il pollice verde e non lei. Un tempo campi di cipolle avevano fiancheggiato Scherwiller Straße, dove invece adesso sorgeva il nuovo quartiere residenziale. Per anni non vi avevano costruito niente, poi lungo la strada erano comparse villette unifamiliari tinteggiate di fresco. Nemmeno in un buco piccolo come il mio paesino natale le cose restavano uguali a prima.

Quando mi fermai nel parcheggio del Tiglio, la trattoria era già buia. Anche in camera dei miei la luce era spenta. Non avevo avvisato Martha che sarei arrivata quel giorno stesso. Se adesso l’avessi svegliata, strappata dal sonno e di pessimo umore, mi avrebbe investito con una valanga di rimproveri. Sinceramente preferivo evitarlo.

Senza perdere altro tempo, risalii in macchina. “Fautenbach è un villaggio strada,” ci aveva spiegato la signorina Giersig durante l’ora di geografia. “Sorge sulle sponde del torrente omonimo e per questo è lungo quasi quattro chilometri ma è largo meno di cinquecento metri.” Percorsi quei quattro chilometri in silenzio fino alla fattoria Weber e al frantoio. Poi c’era la casa di Rosa. Era l’ultima del paese, un vecchio edificio a graticcio affiancato da un essiccatoio per il tabacco. La proprietà si estendeva fino alle colline di ciliegi e dietro i sostegni per i fagioli erano ammonticchiate le arnie colorate. L’alveo del torrente era nascosto da un campo di mais, ma naturalmente sapevo che serpeggiava tortuoso attraverso la Foresta Nera, dalla Schwend fino a Unterdorf, dove si gettava nell’Acher.

Parcheggiai sotto il vecchio castagno e scesi dall’auto. La ghiaia scricchiolava sotto i miei piedi, il torrente mormorava lieve, la brezza estiva faceva frusciare le foglie di granturco dietro la fattoria, portando verso di me il profumo delle susine mature del giardino. Tutto incredibilmente familiare. Per tantissimi anni questo posto era stato casa mia, molto più del Tiglio.

La chiave di riserva era come sempre sotto gli avanzi di filo in un cestino da ricamo sul davanzale. Rosa non aveva cambiato nascondiglio, ma la chiave era diversa. Aveva sostituito la serratura. A prima vista era l’unica novità della casa. Nello stretto corridoio, da dove partiva la ripida scala che portava alle camere da letto, erano ancora appesi i quadretti fatti con i fiori essiccati, il telefono da parete grigio e il poster che le avevo regalato per i suoi settant’anni, con i muratori di New York che facevano colazione sospesi nel vuoto. Come sempre per prima cosa entrai in cucina. Mentre andavo ad accendere la luce, inciampai in una macchina per insaccare e notai subito che tutto era pronto per la macellazione: i vasetti da conserva puliti sul tavolo, le grandi pentole sui fornelli e, appunto, l’insaccatrice sul pavimento, identica a quella che il macellaio zoppo portava sempre con sé. Possibile che Rosa tenesse ancora un maiale?

Aprii la porta sul giardino, al cui stipite era fissata un’antiquata zanzariera marrone punteggiata di mosche morte, e uscii. Riconobbi l’odore del maiale prima ancora di vederlo. Era in uno degli stalli della vecchia porcilaia, mi fissava curioso con i suoi occhietti acquosi e grugniva affamato. Gli versai nel trogolo delle patate bollite che erano in un secchio, ci aggiunsi dell’acqua e lo guardai avventarsi sul cibo, sbrodolandosi. Era grasso e pesante, pronto per essere macellato.

Tornata in cucina, lo stomaco vuoto mi spinse in dispensa. Come sempre c’era un aroma di affumicato. Trovai due speck neri e stagionati e due file di due tipi diversi di salsicce essiccate. Sui ripiani troneggiavano le specialità di Rosa conservate in grandi vasi di vetro e di terracotta: amarene in agrodolce, susine alla cannella, cetrioli, oltre a una notevole quantità di miele millefiori, di colza, di tarassaco, di castagno. L’orgoglio di Rosa. L’apicoltura era l’attività che più di ogni altra le dava soddisfazione. Staccai una salsiccia di fegato, dal frigorifero presi un vasetto di senape e una birra di Ulm, feci spazio sul tavolo, spostando di lato alcuni barattoli di conserva e dei vecchi giornali insieme ad altri documenti, e mi misi a sedere. La cucina sapeva di Rosa. Era inconcepibile pensare che non sarebbe più entrata dalla porta.

Dopo un po’ mi spostai nel salotto buono, dove ritrovai l’armadietto con i vecchi dischi americani vicino al quale aveva trovato posto un nuovo computer e addirittura un modem. In un certo senso non mi sorprese scoprire che, nel crepuscolo della sua vita, si fosse collegata al World Wide Web. Sul consunto tappeto persiano rosso e giallo erano cosparsi pezzetti di carta bianca, scarti di lavori di ritaglio, in mezzo ai quali spiccava, grosso e rozzo, il bottone strappato di una giacca di fustagno. Lo raccolsi e lo misi nella scatola da cucito nel comò, dove trovai i bottoni d’oro, tesoro della mia infanzia. Tra questi era attorcigliato un braccialetto dell’amicizia di fili variopinti, più recente. Feci scivolare tra le dita il morbido cotone contemplando la foto che da sempre era appesa sopra il comò: Rosa e Karl che davano da mangiare alle anatre a Central Park, una giovane coppia che sorrideva all’obiettivo. Una foto scattata poco prima di sapere che dovevano tornare in Germania. Come sarebbe stata la vita di Rosa se fosse rimasta in America? Più felice? Più soddisfatta? Più fortunata? Felicità e soddisfazione dipendevano dal luogo in cui si viveva? Avrei mai provato questi sentimenti? Tirai fuori dalla collezione il disco di Billie Holiday, misi su Travelin’ Light, sorseggiai la birra fredda, respirai l’aria di Rosa e mi resi conto di essere troppo stanca per piangere.

Mentre salivo di sopra, i sottili gradini di legno scricchiolarono. La camera dove avevo dormito spesso in passato era rimasta immutata. Il letto però era fatto ed era stato usato, negli ultimi giorni Rosa doveva aver avuto un ospite in casa. Tirai fuori delle lenzuola pulite dal comò, rifeci il letto, mi coricai addormentandomi all’istante.

Non passò molto tempo che Rosa entrò in camera mia. “Fatti vedere un po’,” mi disse. “Già, anch’io non è che divento più giovane. Vieni,” mi ordinò scostando il piumino, “devo mostrarti una cosa!” La seguii di sotto, notando che, rispetto alla mia ultima visita, il suo collo era ancora più rugoso, e i capelli grigi e corti ancora più radi. La sua camminata però era impettita ed energica come sempre. La zia aprì la porta della cucina e prima che potessi varcarla, un’improvvisa folata di vento la richiuse di scatto. Tentai invano di riaprirla. Il vento fischiava intorno alla casa, facendo tintinnare le tazze da caffè e sollevando la paglia dalla porcilaia. Mi appoggiai alla porta della cucina, fino a quando d’un tratto non vi incespicai dentro. Il vento, placatosi di colpo, era passato come un tornado: vetri infranti, sedie rovesciate, cocci di stoviglie. La porta del giardino sbatteva piano e allo stipite, dove un tempo c’era stata la zanzariera, era appesa Rosa, le gambe allargate e a testa in giù. Come il maiale del macellaio zoppo di tanti anni prima. Sotto la sua testa si era formata una pozza di sangue, le braccia dondolavano a sfiorare il pavimento e la scodella che stringeva nella mano destra disegnava incomprensibili segni nel sangue, sul vecchio pavimento di pietra.

“No,” gridai, “Rosa no!”

Mi misi a sedere sul letto. Oltre la finestrella una mezza luna rischiarava il crinale scuro della Foresta Nera. Una porta sbatteva di sotto. Ero sveglia o sognavo? Poi un altro rumore, dei passi sulla ghiaia. Mi alzai di scatto e corsi giù. Il vento estivo giocava con l’uscio sul retro, dov’era tornata a dondolare la zanzariera, ma non riuscivo a scacciare dalla mia testa l’agghiacciante immagine del sogno. Mi affrettai a richiudere la porta. Proprio mentre mi chiedevo se l’avessi lasciata aperta prima di salire in camera, udii poco lontano il motore di un’auto che si accendeva. Corsi all’ingresso, spalancai la porta, vidi due fari che si allontanavano in direzione del paese, ma riconobbi soltanto la sagoma di un’auto rossa mentre sfrecciava sotto il lampione accanto al frantoio, prima che fosse inghiottita nuovamente dall’oscurità.

Tornai di corsa in casa e d’un tratto mi resi conto che non avevo chiesto a Martha di che cosa era morta la zia.

Due

“È caduta dalla scala!”

Traudl aveva visto la mia auto nell’aia, si era stupita che fossi andata a casa della zia così presto, e si era stupita ancor di più quando aveva scoperto che avevo dormito lì. Mi fissò a lungo, con la mano screpolata posata sul mio braccio e gli occhietti penetranti dietro le lenti spesse.

“È venuta a trovarti?” mi chiese. “Si dice che i morti si aggirino nelle loro case finché non sono sottoterra,” spiegò, vedendo che aggrottavo la fronte.

Evitai di parlare del mio sogno, ma le domandai come fosse morta. Quando Traudl me lo raccontò, scossi la testa incredula. Dopo l’incidente Rosa evitava le scale come il diavolo l’acqua santa. A sessant’anni era caduta rovinosamente mentre raccoglieva le ciliegie, era rimasta in ospedale quattro settimane con una frattura scomposta del bacino e aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più messo piede su una scala. Da allora erano i parenti a dover raccogliere le sue ciliegie, le susine e le mirabelle. Traudl lo sapeva perfettamente come me.

“Come mai era salita di nuovo su una scala?”

“Solo Rosa e il buon Dio lo sanno. Forse da vecchia ha voluto strafare. Pensa alla storia del maiale! Voleva macellarlo proprio quel giorno.”

Traudl mi guardò come se potessi spiegare il comportamento di Rosa. Eravamo sotto il susino, nel punto esatto in cui due giorni prima lei aveva trovato la zia.

“Sarà stata l’una o giù di lì. Le deve essere venuto un colpo, ho pensato, perché quello era sempre stato il suo desiderio: morire sana. Un colpo al cuore e via. Non c’è morte più bella a ottantatré anni.”

“Però non è stato un infarto, no?”

“Frattura del collo, ha detto il dottor Buchenberger. L’ho chiamato subito.”

Annuii, mi avvicinai alla scala, scrutai la chioma del susino, i rami fitti e intrecciati pieni di frutti maturi. Controllai lo stato della scala, era solida e ben conficcata in terra.

“E la scala?” chiesi.

“Le era caduta sopra. L’ho riappoggiata all’albero dopo che Rosa...” Con un grande fazzoletto si asciugò rapidamente le lacrime sotto gli occhiali.

Provai a salire. Non c’erano pioli marci o allentati. Da lassù la vista spaziava in tutte le direzioni. Si vedeva la strada del paese, che si snodava lungo il corso del torrente, le colline di ciliegi che si allungavano verso Mösbach e naturalmente la Foresta Nera, bella e maestosa, un’immagine da cartolina. Ma Rosa non sarebbe mai salita lassù per il panorama. Nella mia testa riaffiorò l’immagine di lei appesa a testa in giù. Cercai di ricordare i segni che aveva tracciato nel sangue con la scodella che reggeva in mano. Non erano lettere, piuttosto linee, cerchi, trattini, come quelli dell’alfabeto tibetano o arabo. Segni sconosciuti, inspiegabili, confusi. E poi cosa significava la scodella che stringeva con tanta forza?

Un frastuono squarciò i miei pensieri e vidi una colonna di tre furgoncini bianchi con una scritta rossa sulla fiancata che superava il frantoio diretta verso il paese. La seguii con lo sguardo fino a vederla scomparire dietro il campo di granturco.

“Arrivano i geometri?” mi chiese Traudl dal basso.

“Furgoncini bianchi con una scritta rossa,” spiegai scendendo. “Si sono fermati oltre il campo di granturco.”

Traudl annuì. “Allora ci siamo.”

“Che vuoi dire?”

“Diventerà tutta area edificabile, dal campo fino su al bacino di sbarramento. Nei prossimi due anni ci sarà più movimento qui che alla Sagra della susina di Bühl. NUOVO COMPLESSO RESIDENZIALE IN POSIZIONE TRANQUILLA CON VISTA PANORAMICA SULLA FORESTA NERA. Non hai visto i cartelloni all’ingresso del paese?”

Scrollai il capo. “Ho notato solo la cipolla di legno. E mi ha fatto venire in mente le vostre gare.”

Gli occhi di Traudl lampeggiarono. “Questa volta avrei vinto io. Va’ a vedere nel mio orto! Ho una cipolla così grossa che da queste parti se la sognano.” Poi, più piano, “ma che cosa me ne faccio ora che Rosa è morta?” aggiunse quasi piagnucolando. La mano rugosa frugò nuovamente nella tasca del grembiule alla ricerca del fazzoletto. Traudl si soffiò il naso. “Che cosa ne faremo del maiale?” domandò dopo essersi ripresa.

“Da quando la zia ammazza il maiale in agosto? Lo faceva sempre in inverno.”

“Che vuoi, non è più come prima. Il macellaio è vecchio, ha la cirrosi, un giorno gli fa male la gamba sana, un altro il moncherino, e Rosa ha troppo da fare. È dal mercoledì delle Ceneri che si trascina questa storia del maiale. Una volta non può lui, una volta lei. Adesso però bisogna provvedere.”

“L’insaccatrice dello zoppo è in cucina.”

“Ah, ma allora è venuto? Un paio di volte le ho chiesto: ‘Cosa vuoi fare del maiale, Rosa? E poi è proprio necessario che lo ammazzi tu? Portalo da Jörger, che ci pensa lui.’ Ma l’età non l’ha fatta certo rinsavire, proprio no.”

Tirò fuori di nuovo il fazzoletto, si soffiò il naso e mi guardò come se dovessi sapere perché la zia con l’età non era affatto diventata più ragionevole.

“Dov’è adesso Rosa?” le chiesi invece.

“Dove finiscono tutti, prima o poi. Nella camera mortuaria al cimitero.”

“Hai ancora la chiave?”

Traudl annuì e strascinandosi sulle gambe storte si diresse verso casa sua. La seguii nella cucina bassa e buia, dove aleggiava ancora quell’odore marcio e dolciastro di malattia, come all’epoca in cui aveva accudito la sorella malata. Dacché avevo memoria, Traudl puliva la chiesa, la canonica e la camera mortuaria.

“È nella seconda cella frigorifera,” mi spiegò, mettendomi in mano la chiave.

Presi la strada tra i campi. Una lieve brezza soffiava tra le foglie dei ciliegi ormai senza frutti e rendeva quell’estiva mattina di agosto non eccessivamente calda. Giunta dietro la vecchia chiesa, imboccai il viottolo in salita che portava al cimitero. Ai morti era stato destinato il punto più bello del paese, la collina più alta, circondata da un mare di ciliegi, con un vasto panorama sulla piana del Reno e sulla Foresta Nera. Era il luogo dove erano più vicini al cielo.

Mi ritrovai davanti al lungo edificio dell’obitorio, ma prima di varcarlo mi incamminai sullo spesso strato di ghiaia fino alla tomba dei miei nonni, ripensando a quella volta che Rosa mi aveva messo di fronte alla morte per la prima volta. Avevo sei anni, ero reduce dalla mononucleosi quando mia nonna morì. La zia l’aveva sistemata nella camera dove avevo dormito la notte prima. La bara era appoggiata su due sedie accanto al letto. La nonna era sdraiata supina con una veste bianca, una ghirlanda di garofani rossi intorno al capo, le mani intrecciate intorno a un rosario. “Puoi avvicinarti,” aveva detto Rosa, mentre io sbriciavo nella stanza dal corridoio. “Non ti farà niente.” Io però immaginavo che la morte fosse dappertutto in quella stanza, contagiosa almeno quanto la mononucleosi e che, se mi fossi avvicinata troppo, mi avrebbe ghermita come aveva fatto con la nonna. Mi rifiutavo di fare un solo passo all’interno. La mano di Rosa posata sulla mia spalla, tuttavia, mi aveva sospinto energica e implacabile verso il regno dei morti e quando mi ero fermata davanti alla bara, paralizzata dalla paura e convinta di essere sul punto di morire, lei mi era venuta accanto, aveva accarezzato delicatamente il volto della defunta e sistemato i garofani. “Tutti facciamo questa fine,” disse. “Anche tu, che ora sei solo una bimba.”

L’avevo odiata per questo, e per anni non ero più riuscita a dormire supina, né in quella camera. Nel contempo però l’ammiravo, perché continuava a vivere sebbene non solo fosse stata nella stanza della morte, ma avesse persino toccato il cadavere! Vagamente mi rendevo conto che la morte non era come la mononucleosi, non si portava via tutti quelli che incontrava, poteva concedere una lunga pausa prima di colpire inaspettata, com’era accaduto adesso con la zia.

Presi la chiave che avevo nella tasca dei calzoni, tornai verso la camera mortuaria, aprii la porticina laterale, entrai nel corridoio fresco e buio e aprii lo sportello con sopra dipinto un grande “2”.

Nessuna veste bianca, nessun rosario, nessuna ghirlanda di garofani rossi. Il rosso che saltava agli occhi era qualcos’altro. Malamente celata sotto i radi capelli grigi, c’era una profonda frattura insanguinata che correva dall’orecchio alla fronte. Forse a causa della ferita o perché era morta, il suo viso sembrava molto più piccolo di come lo ricordavo e vecchissimo, senza i suoi vivaci occhi castani. Accarezzai lievemente la pelle fredda e cerea.

“Rosa,” bisbigliai, “ora non posso più dirti quanto sei stata importante per me.” Avvertivo le lacrime, la frescura della stanza e la perdita. Per dieci anni non avevo più pensato a lei e ora che era morta, mi struggevo per le visite perennemente rimandate, le conversazioni mai avute, lo stupido litigio. Non ero tornata nemmeno per i suoi ottant’anni, me l’ero cavata con un mazzo di fiori e gli auguri per telefono. Ci saremmo riconciliate, sicuramente, come succedeva sempre, se la morte non ci avesse messo i bastoni tra le ruote. Accarezzai le mani vecchie e ossute e baciai la fronte fredda. “He said ‘Goodbye’ and took my heart away,” cantai sottovoce, “so from today I’m travelin’ light.” La sua canzone preferita.

Venti minuti più tardi bussavo a casa di Traudl per restituirle la chiave.

“Ha l’aria serena, vero?”

“Sei stata tu a prepararla?”

Annuì.

“Sì,” confermai, “ha un’aria serena, nonostante la ferita alla testa.”

“Avevo pensato di metterle un foulard,” disse Traudl, “ma lei di sicuro non avrebbe voluto.”

“È stata la caduta?”

“È stata la scala che le è piombata addosso. Era messa molto peggio prima di sistemarla,” rispose, poi tirò fuori di nuovo il fazzoletto, si tamponò gli occhi umidi e si soffiò il naso.

“Certo che Traudl potrebbe farsi un lago salato davanti a casa,” sentii la voce di Rosa che la prendeva in giro. “Non conosco nessuno che abbia le lacrime in tasca come lei. Mamma mia quanto piange!” Rosa, sempre lei! Eppure tutti in paese sapevano quanto fosse violento il padre di Traudl e come a lei spettasse accudire la sorella minore inchiodata a letto dalla sclerosi multipla. “Povera donna,” dicevano tutti, “che peso deve portarsi sulle spalle.”

Avevo quindici anni ed ero in giardino con la zia quando avevo sentito prima schioccare la frusta con cui il vecchio Morgenthaler colpiva Traudl, poi i suoi singhiozzi disperati. “Devi fare qualcosa,” l’avevo implorata, ma lei faceva finta di niente. “Vai e digliene quattro!”

“Prima deve essere lei a volere che smetta,” aveva replicato Rosa, spietata. L’avevo rimproverata di essere presuntuosa e vigliacca, ero montata in sella alla bici e me ne ero andata, vergognandomi di non averlo affrontato io stessa. In seguito, non ricordo più quando, la zia mi aveva raccontato di aver minacciato di denunciarlo, ma Traudl l’aveva supplicata di non rivolgersi alla polizia. Non poteva mettersi contro il suo stesso padre, che poi non la picchiava così spesso, e inoltre come avrebbe fatto con tutte le chiacchiere in paese e gli sguardi della gente quando sarebbe andata a fare la spesa o in chiesa? “Una così non puoi aiutarla. Una persona deve voler cambiare, altrimenti è impossibile. Tienilo a mente!” Gli insegnamenti di Rosa. Acqua passata, il padre di Traudl era morto da tempo, come pure la sorella malata. Traudl però non aveva mai imparato a camminare dritta, continuava a restare curva con la sua aria sofferente, e le lacrime sempre in tasca.

“Ottimo lavoro,” mi complimentai, tornando a parlare della zia. “Le hai anche messo il vestito di lana color carta da zucchero, era uno dei suoi preferiti.”

L’anziana donna annuì.

Per un po’ restammo in silenzio, ciascuna immersa nei propri ricordi di Rosa, Traudl di nuovo con le lacrime e il fazzoletto. Le due donne erano state vicine di casa per quasi cinquant’anni, era una grande perdita anche per lei.

“Domani finirà sottoterra.” Traudl si asciugò ancora una volta gli occhi umidi. “Ci sarà pure Elsbeth.”

“Come sta?” domandai per educazione, perché sua figlia non mi aveva mai interessato. Di un paio d’anni più grande di me, da bambine non avevamo giocato molto insieme e non avevo ricordi di lei.

“È la direttrice di una casa di riposo a Villingen,” rispose orgogliosa. “Lo Spirito Santo, dove vive anche Ottilie, la sorella di Rosa. Quando Ottilie ha iniziato a non starci più con la testa, Rosa ha chiesto a Elsbeth se poteva trovarle un posto. Poi si è liberata una camera e Ottilie è entrata. Ha sempre tanto da fare, Elsbeth, e un mucchio di responsabilità. Tutto questo le pesa molto, ma domani verrà lo stesso al funerale.”

“Bene, sarà ora che vada al Tiglio,” dissi cambiando argomento.

“Ripassi di qua?” chiese Traudl.

“Certo.”

“Tanto sai dov’è la chiave.”

Annuii e tornai nella proprietà di Rosa, passando dal giardino di Traudl. Dietro i sostegni dei fagioli, le arnie splendevano nei toni squillanti del giallo e del rosso. “Guarda!” la sentii gridare, “le vedi quelle che fanno la danza del ventre? Serve per indicare alle altre dov’è il cibo migliore.” Oggi non le vedevo. Né quelle che danzavano, né le altre. Non c’erano api a ronzare nel giardino di Rosa.

Che la zia avesse abbandonato l’apicoltura? Stentavo a crederci, piuttosto avrebbe dato via il maiale. Ma non la vedevo da dieci anni, chissà quanto era cambiata. Mentre superavo il susino per rientrare in casa, cercai tracce di sangue sulla scala che aveva provocato la tremenda ferita alla testa della zia, ma non trovai niente. Chiusi accuratamente tutte le finestre e le porte e rimisi la chiave al suo posto nel cestino di vimini. In quel momento suonò il mio cellulare.

“Sei ancora a Colonia?” domandò Martha. “Quando arrivi?”

“Tra cinque minuti.”

Nessun cuoco ormai include le frattaglie nel menù, a parte mia madre. “Oggi rognoni all’agro,” stava scritto sulla lavagna appesa al grande tiglio che dava il nome alla trattoria dei miei genitori. I rognoni all’agro erano una specialità del Tiglio, una delle poche ricette che Martha sapeva cucinare davvero bene. Era l’ora di pranzo e i tavoli all’aperto sotto gli ombrelloni erano occupati da turisti, gente di passaggio e clienti regolari che divoravano la specialità di Martha o erano in attesa di farlo. Al tavolino a sinistra dell’ingresso un signore anziano con un completo chiaro intingeva un pezzetto di pane in quel che restava del sugo nel suo piatto. Alzò la testa quando arrivai all’altezza del suo tavolo.

“I rognoni all’agro erano il suo piatto preferito già vent’anni fa,” dissi. “Buongiorno, dottor Buchenberger.”

“Ma guarda chi si vede, la piccola Katharina,” rispose lui stringendomi la mano. “La piccola Katharina che...”

“...è cresciuta tanto,” terminammo la frase in coro.

Era da quando avevo quattordici anni che ripeteva le stesse parole ogni volta che mi vedeva. All’epoca i geni di Martha avevano sferrato l’attacco decisivo trasformando la delicata bambina sottopeso, che qualche volta aveva curato, in una teenager alta e robusta, che non aveva niente da invidiare alla figura da valchiria della madre. Quello che lei non mi aveva passato erano i suoi magnifici capelli neri e il colorito abbronzato; al loro posto avevo preso i riccioli rossi, la pelle chiara e le lentiggini di mio padre.

“Peccato che tu sia qui per una circostanza così triste.” Il vecchio dottore sospirò.

“Difficile credere che sia salita di nuovo su una scala.”

“Mi ricordo bene quella frattura del bacino. Un guaio tremendo, ha continuato a darle disturbi per moltissimo tempo,” osservò, “ma non immagini nemmeno che cosa combinano le persone anziane, lanciandosi in imprese assurde o guardandosi bene dal rispettare quei limiti che loro stesse si erano imposte. A volte diventano irragionevoli come bambini piccoli!”

“Soffriva di Alzheimer?”

“No, no, la sua materia grigia funzionava egregiamente,” mi assicurò. “Aveva ancora una mente vivace e una prontezza ineguagliabile.”

“Ma allora perché è salita sulla scala?”

“Santo cielo, perdiana, eccola lì!” tuonò alle mie spalle la voce familiare di mio padre. “Dai, entra, Martha ti aspetta.”

“Il mese prossimo verrò un paio di giorni a Colonia,” disse il dottor Buchenberger salutandomi, “voglio vedere la nuova vetrata di Richter nel duomo.”

“Allora venga a pranzo da me,” gli proposi. “Il Giglio Bianco è a Mühlheim. Mi farebbe molto piacere.”

“Ti vuoi sbrigare?” mi incalzò mio padre.

Venendo dall’accecante luce esterna di agosto, la sala interna in cui lo seguii sembrava un antro buio. Sulla panca di fronte alla grande stufa di maiolica verde c’erano i quotidiani del giorno e sui tavoli sempre le stesse orribili tovaglie sintetiche beige bordate di rosso. Mio padre mi indicò con la testa la cucina, poi andò dietro il bancone, dove spillò una birra e riempì due bicchieri di bianco frizzante.

Feci un profondo respiro prima di aprire la porta, poi rimasi a bocca spalancata per la sorpresa. La vecchia cucina di mia madre era irriconoscibile: nuovo rivestimento di piastrelle, nuovi fornelli a gas, due nuovi frigoriferi, un forno a vapore, grandi lavelli e un tavolo da lavoro passante in acciaio. Avevo rinnovato quella del Giglio Bianco un paio d’anni prima e non avevo ancora finito di pagare le rate del prestito, avevo quindi un’idea piuttosto precisa della cifra che i miei genitori avevano dovuto sborsare.

Martha stava saltando i rognoni in tre diverse padelle, tagliati a fettine sottili e conditi con cipolle e vino bianco. Nonostante il profumo proveniente dalla rosolatura e dagli aromi, colsi il penetrante odore di piscio, che sempre accompagna il lavaggio e la pulizia delle interiora crude.

“Ciao, mamma.”

“Come al solito arrivi proprio nel momento più adatto.” Alzò brevemente gli occhi. “Devo preparare ancora otto porzioni.”

Non le chiesi se voleva aiuto, dopo tutti questi anni entrambe sapevamo bene che non potevamo lavorare insieme nella stessa cucina.

“Guarda che cosa c’è sullo scaffale dietro la radio,” mi ordinò, spruzzando con il vino bianco un’altra porzione di rognoni.

Ubbidii e presi una busta su cui, con la grafia energica di Rosa, stava scritto “Il mio testamento”.

L’aveva chiamata Traudl, raccontò Martha mentre continuava a scuotere le padelle, dopo aver trovato Rosa morta. Mio padre Edgar, unico fratello di Karl, era il parente più prossimo in paese. Dopo che l’ambulanza aveva portato via il cadavere, Traudl ed Edgar erano entrati con il dottor Buchenberger nel salotto buono. Traudl sapeva dove Rosa custodiva il testamento e lo aveva consegnato a Edgar.

Rimasi con la busta in mano, senza trovare il coraggio di aprirla.

“Dagli un’occhiata,” disse Martha. “Io finirò tra un’ora.”

Mi avvicinai alla finestra aperta della cucina e posai la busta sul davanzale. Dalla scuola mi arrivarono le voci chiassose dei bambini che tornavano verso casa correndo, dandosi spintoni tra chiacchiere e risate. Dopo dieci minuti la baraonda era terminata e nel cortile delle elementari restava solo un gatto tigrato disteso a prendere il sole. Con un gesto energico estrassi il foglio dalla busta. Conteneva solo due frasi. “Lascio tutto ciò che possiedo a mia nipote Katharina Schweitzer.” E sotto, distanziato: “Dichiaro di essere nel pieno possesso delle mie facoltà mentali.” Firma, luogo e data. Aveva redatto il testamento due anni prima, ovvero molto tempo dopo la nostra ultima litigata.

Non mi accorsi che Martha si era avvicinata. Mi porse un fazzoletto, mi tolse il foglio dalle mani e lo rimise nella busta.

“Sei sempre stata la sua preferita, fin da bambina passavi più tempo con lei che con noi. Poi, quando è invecchiata, a lei non hai più pensato. Andavi a trovarla ancora meno di noi.”

Ero in casa da neppure un’ora e Martha sferrava già il primo attacco frontale. Purtroppo, al contrario di mio fratello, non avevo mai imparato a mettere le orecchie in modalità stand by. Stavolta però non avrei abboccato.

“C’è ancora da organizzare qualcosa per il funerale?” domandai per cambiare argomento.

“Pensa a tutto l’impresa di pompe funebri. È fissato per domani alle 10:30. Anche il parroco è stato avvisato. Per pranzo saremo di ritorno qui.”

“Viene qualcuno dall’Oberland?” Rosa era cresciuta ad Aasen, una paesino nei pressi di Bad Dürrheim, sull’altopiano del Baar.

“L’unica parente ancora in vita è la sorella Ottilie. Soffre di demenza e vive da molti anni in un istituto. Michaela non ha ancora deciso se portarla o meno.”

Rosa non era mai andata molto d’accordo né con la sorella né con la nipote.

“Negli ultimi anni Michaela è venuta spesso. Lei e papà sono stati gli unici a occuparsi di lei.”

La seconda bordata. Ero curiosa di vedere quanto avrei resistito. Passai mentalmente in rassegna le amiche di Rosa. “Antoinette?”

“Non può più guidare, tantomeno attraversare Strasburgo.”

Peccato. L’amica alsaziana di Rosa mi era sempre stata simpatica. “Hai pensato già al pranzo per il funerale?” domandai.

“È tutto pronto. Minestra di spaghetti e manzo stufato. Nel congelatore c’è il gelato.”

Naturale. Una cosa alla buona, niente di speciale. Soprattutto non per Rosa. E pensare che una volta mi aveva confidato di desiderare un sontuoso banchetto per il funerale. “Mi piacerebbe preparare qualcosa, se mi dai il permesso di lavorare nella tua nuova cucina.”

“Non te l’aspettavi, vero?, che mi concedessi una cucina del genere.” L’ombra di un sorriso tradì il suo orgoglio. “I fornelli si erano sciupati e io non ringiovanisco. Su di te non posso fare affidamento e nemmeno su tuo fratello. Allora abbiamo investito in attrezzature per facilitarmi il lavoro.”

“Ho capito, mamma. Allora?”

Dopo un attimo di esitazione scosse la testa. “Rosa ti lascia tutto quanto e tu non vuoi nemmeno partecipare al funerale.”

Ma certo, il funerale! Come in tutti i paesi, anche qui c’erano le solite prefiche che al cimitero si trascinavano dietro ogni bara, per poi avere modo di spettegolare su chi avesse reso l’ultimo omaggio al morto, se fosse stata una cerimonia in grande o in piccolo. E Martha, con la sua rigida divisione tra ciò che è bene e ciò che è male, con le sue orecchie da locandiera esperta in grado di cogliere tutte le maldicenze, sapeva già cosa avrebbero detto su di me: “Non si è fatta viva per dieci anni e non si presenta nemmeno al funerale. Però i soldi se li prende, quelli non li disdegna. A vivere in città è diventata superba, non sa più come ci si comporta.”

“Sono andata alla camera mortuaria e l’ho salutata, mamma. Mi chiedo perché sia salita di nuovo su una scala.”

Martha sbuffò stizzita. “Lascia in pace i morti, Katharina! Anche se ti metti a ficcare il naso in giro, non la riporterai in vita. Rosa aveva ottantatré anni, una bella età. Sarei contenta di poter morire come lei.”

Mi strinsi nelle spalle. Non mi ero aspettata certo una reazione diversa da mia madre. “Allora, per la cucina?”

“Per me va bene. D’altronde, qualcuno deve pur occuparsi del mangiare,” brontolò.

Nessun’altra bordata? Mi sorprendeva.

“Questo lo devi portare all’ufficio catastale di Achern, anche per la storia dell’area edificabile,” mi ordinò Martha restituendomi il testamento.

“Quale area edificabile?”

“Sai anche tu quanto fosse testarda Rosa. E poi dicono che da vecchi ci si ammorbidisce, macché...”

“Martha!”

Mio padre la interruppe bruscamente. Era sulla porta della cucina. Dall’ultima volta che ero stata qui aveva i capelli ancora più bianchi. Solo le lentiggini in faccia testimoniavano che un tempo aveva avuto una chioma rosso intenso come la mia. Senza dire una parola Martha tornò ai fornelli, impilò tegami e padelle e li portò al lavello, fermandosi a massaggiarsi l’anca che le era rimasta dolorante dopo la frattura alla gamba di qualche anno prima.

Fa male al cuore vedere invecchiare i propri genitori.

“Bisogna raccogliere le susine,” disse Edgar rivolto a me, “se mi dai una mano in un’ora ce la sbrighiamo.”

Non fu pronunciata nemmeno un’altra parola riguardo all’area edificabile, da nessuno dei due. Seguii mio padre all’esterno e presi due cestini dal capanno, mentre Edgar si caricava in spalla la scala e andava in giardino.

“Allora?” sbuffò, dopo aver appoggiato la scala all’albero, conficcandola saldamente nel terreno. “Come va il Giglio Bianco? Hai dovuto chiuderlo per il funerale?”

“No, per fortuna. Mi sostituisce Ecki.”

“Ah, beh.”

“Tra tre settimane partirà per un nuovo incarico a Singapore. Fino ad allora resta a Colonia.”

“Capisco.” Senza dire altro Edgar prese un cestino e salì sulla scala.

Era questo che apprezzavo di lui, non mi tormentava di domande sulla mia vita sentimentale. A volte neppure io riesco a capire perché mi ostini a stare con un uomo che cucina in tutto il mondo tranne che al mio fianco e si fa vedere solo saltuariamente. Figuriamoci se lo capiva mio padre. Nonostante questo, non si impicciava.

“Ma gli affari vanno bene, no?”

“Di sicuro non mi arricchisco. A fine mese in genere sono contenta se riesco a pagare chi lavora per me.”

Un altro cenno di assenso, ma nessun’altra domanda. I frutti più famosi della regione scintillavano di blu tra il fogliame e quelli marciti ai piedi dell’albero dimostravano che era proprio giunto il momento della raccolta. Con gesti esperti Edgar afferrava i rami e staccava le susine. Io mi occupavo dei rami più bassi, che potevo raggiungere senza scala. Ben presto cogliemmo tutti i frutti più maturi e io pensai alla torta di prugne con la zuppa di patate, un piatto che Rosa preparava sempre con le prime susine della stagione. Sebbene l’insolito accostamento sia conosciuto solo nel Baden, non c’è niente di più squisito: una zuppa di patate morbida, delicata e con un vago sentore di aglio, insieme a una semplice torta lievitata di prugne con cannella e zucchero. Poi mi tornò in mente il testamento e il tono brusco con cui Edgar aveva zittito Martha poco prima, in cucina.

“Che è questa storia dell’area edificabile, papà?”

“Già, l’area edificabile. Di sicuro avrai visto il cartello venendo dall’autostrada, giusto?” Parlò strascicando le parole, per un po’ rimase in silenzio, poi trovò la forza di riprendere il discorso. “Per anni non hanno costruito niente qui da noi, ma l’anno scorso l’amministrazione ha dichiarato area edificabile non solo i campi lungo Scherwiller Straße, bensì anche tutta la zona dietro la casa di Rosa fin su in alto al bacino di espansione. Come sai lì abbiamo un campo e ce l’ha anche Rosa. Lo puoi vendere e per qualche mese non dovrai preoccuparti del tuo Giglio Bianco. I documenti sono nel salotto buono della zia, dagli un’occhiata, secondo me la Retsch paga bene.” Mi passò il cestino e scese lentamente dalla scala.

“Voi avete già venduto?” indagai.

“Non ancora, ma adesso lo faremo,” borbottò vago cercando un nuovo punto dove collocare la scala. Mentre si assicurava che l’ancoraggio fosse stabile, io gliela reggevo.

“Secondo te perché Rosa è salita di nuovo su una scala? Riesci a spiegartelo?”

“Sai, a dire il vero non ci ho pensato su troppo,” sospirò agganciando il cestino a un ramo. “Rosa ha passato tutta la vita, fino all’ultimo, senza lasciarsi persuadere da niente e nessuno. Sono contento che sia morta così. Sai bene come tanti finiscano nelle case di riposo o rimbambiti...”

“Però è strano.”

Mio padre si strinse nelle spalle e serrò la bocca. Forse aveva ragione lui, anch’io dovevo essere contenta che alla zia fosse stata concessa una morte così rapida. Continuammo a cogliere susine in silenzio, mezz’ora dopo trascinammo i cestini pieni nella cucina del Tiglio.

“Non la riporterai in vita scoprendo perché è salita sulla scala,” disse mio padre riprendendo l’argomento, mentre mi preparavo per tornare a casa di Rosa. “So che per te in particolare è dura non ritrovarla più qui. Ma è morta, Katharina, e dobbiamo farcene una ragione.”

Come si convive con la morte?, mi chiesi mentre prendevo la chiave della zia dal cestino di vimini. Fino a quel giorno non lo avevo ancora scoperto. Da bambina immaginavo la morte come una gigantesca mietitrice che uccideva tutti gli abitanti del nostro paese. Ma si poteva negoziare con lei, chiederle gentilmente di risparmiare qualcuno, i genitori, il fratello, Rosa. Ovviamente oggi so che la morte non si fa scrupoli né per i desideri di una bambina di otto anni, né per quelli di una quarantatreenne. Non accetta negoziati, si prende chi vuole e non gliene importa niente dei vuoti che scava in quelli che restano.

Nel salotto buono c’erano alcune lettere della Retsch & Co. in parte ancora sigillate, indirizzate alla zia, ma in quel momento non avevo la minima voglia di occuparmi della questione dell’area edificabile. Invece notai che Rosa si era comprata un cordless nuovo con segreteria incorporata. Schiacciai il tasto dei messaggi e ascoltai una voce femminile sconosciuta. “Buongiorno signora Schweitzer, sono io. Per quanto riguarda la clotianidina... è meglio se le mando i nomi. Mi chiami, il mio numero ce l’ha.”

Una voce giovane, una parlata del Kaiserstuhl, ma cosa diavolo era la clotianidina? Riascoltai il messaggio, vidi che risaliva a una settimana prima della morte della zia e che veniva da un numero privato. Non era possibile richiamare, e poi sembrava che Rosa non controllasse la segreteria telefonica con regolarità.

In quella stanza nulla mi aiutava a scoprire qualcosa sull’identità della donna della telefonata, né sulla clotianidina, inoltre la casa serbava così intensamente il profumo di Rosa da spingermi fuori in giardino, in un lussureggiante rigoglio estivo. Verdure a profusione, profumo di rosmarino e pomodori maturi, dalie fiorite rosse, gialle e rosa, gladioli sfavillanti, delicati astri color pastello, un vero banchetto per le api, che erano assenti proprio come Rosa.

“Sanno distinguere tra centinaia di profumi,” sentii bisbigliare la sua voce, mentre era seduta sulla vecchia panchina sotto l’oleandro a osservare gli insetti svolazzanti insieme alla piccola Katharina. “E sono i muratori più precisi del mondo.” Non ricordo più quante volte, col righello, avessi tentato di disegnare favi regolari sulla carta a quadretti, quanti fogli fossero finiti appallottolati nel cestino della carta, quanto mi fossi arrabbiata da bambina, perché i favi che tracciavo non erano tutti uguali. “Puoi andare avanti fino alla fine dei tuoi giorni, non ti avvicinerai mai alla bravura delle api,” scherzava la zia. La sua cultura sulle api era sconfinata, spesso mi interrogava come un’insegnante severa.

“Quali sono i sei compiti delle api, Katharina? Quale funzione rivestono i fuchi? A che cosa serve alle api la pappa reale? Cosa succede durante il volo nuziale?” A otto anni rispondevo ancora volentieri, ma crescendo, tutte quelle domande mi davano sempre più sui nervi. Da adulta avevo scordato le api, ma quel giorno, in quel giardino dove tante volte le avevo osservate con Rosa, mi mancavano. Anche se lei aveva abbandonato le sue arnie, dove erano le api delle altre colonie? Come mai in quel mare di fiori non ce n’era neppure una?

Mi incamminai lentamente verso il susino. La scala omicida, appoggiata innocente al tronco, non rivelava perché Rosa fosse caduta. Raccolsi un paio di susine, sputai i noccioli sull’erba, schiacciai con le scarpe alcuni frutti ormai marci a terra e feci un’altra scoperta: non c’erano nemmeno le vespe. E pensare che in tarda estate in pratica non c’era susino alla base del quale non ronzassero in massa, per divorarne i frutti spiaccicati. Ora invece non ce n’era neppure una.

Tre

Api killer grosse quanto manzi affollavano i miei sogni, lasciando nella loro scia arnie devastate, terra bruciata, alberi spogli, fiori avvizziti. La zia Rosa, sotto forma di ape da cartone animato, con un registratore portatile tra le zampette, guidava un variegato esercito di animali in lotta contro di esse. Le api killer si dispersero subito, quando l’apina Rosa schiacciò il tasto play e dal registratore uscì a tutto volume la voce squillante di Karel Gott che cantava: “Vola, vola, vola, vola l’ape Maia, gialla e nera, nera e gialla, tanto gaia!”